mercoledì 12 maggio 2010

Rosa Cortesia, Vidor (TV)

Nata il 12 febbraio 1908.

Nastro 1994/31 - Lato A                    3 agosto 1994

Erano i primi di novembre, giornate piovose. Eravamo in cinque fratelli, io (1908), mia sorella Teresa (1903)... 
Una sorella era a Milano, due fratelli erano militari. 
Ordine del parroco, che suona la campana ... ci convince a passare perlomeno di là del ponte.
Mio padre era stato richiamato, malgrado l'età che aveva (era del 1870). Era stato chiamato perché dai 15 ai 60 anni. Comunque è riuscito a scappare e a venire a casa per caricare i figli.
Sul treno per andare a Bari siamo saliti a Montebelluna, e mia madre [quando è passata per] Rimini ha chiesto della caserma, ma le hanno detto che suo figlio Costante era in spiaggia di servizio... 
Noi allora abitavamo in centro a Vidor, dove ora c'è la farmacia. Facevamo i contadini, sotto il prete.
Il prete è venuto con noi e ha dovuto camminare anche lui, quando ci siamo allontanati da Vidor.
Mio nonno Giovanni Cortesia invece è rimasto qua. «No, mi stae qua, ghe tende a a casa» ... e invece è rimasto sotto i tedeschi ed è morto di fame. Lo hanno portato dalle parti di Farrò, non molto lontano da Vidor.
Mio zio Cassol che stava qua a Vidor aveva delle bestie e le ha attaccate al carro. Mio padre con un carretto a due ruote ha legato le stanghe al carro e così siamo partiti da Vidor per Caerano San Marco, con noi sopra il carrettino. 
Piova, perché era novembre.
Sul ponte tutti che si affannavano per andare di là del Piave.
A Caerano siamo rimasti 40 giorni. Combinazione sono cadute due bombe a Montebelluna e allora hanno preso per prima cosa i profughi e ci hanno portato col treno a Bari.
In questi quaranta giorni siamo stati trattati bene dai Garbuio, brava gente, brava gente davvero; perché il latte, la polenta, i fagioli ... di tutto ci davano, sì, sì, proprio brava gente.
In quel borgo c'erano i francesi soldati, che ammazzavano i cavalli, li sotterravano e alla notte [i profughi] li tiravano su per mangiarli.

A Ruvo di Puglia ci hanno sistemato sul palazzo del vescovo. Siamo arrivati di sera. Era una tradotta e la gente per la strada ci accoglieva bene, brava gente. 
[Durante il viaggio], quando il treno si fermava, c'erano quelle che facevano servizio sui treni, quelle messe apposta per i profughi che ci portavano la cioccolata, portavano i biscotti, le arance. 
Alla sera, dopo tre giorni e due notti di viaggio, siamo arrivati a Ruvo.
Ci hanno portato in una caserma dei carabinieri dove c'era la tavola piena di tutto. C'era soprattutto frutta: arance, pistacchi, fichi... Poi ci hanno portato nella chiesa di San Domenico sempre a Ruvo, e là hanno sistemato i letti e abbiamo dormito. Il giorno successivo ci hanno portati tutti in questo palazzo vescovile. Un grande palazzo. C'era un chiostro con delle bellissime colonne: era il palazzo del vescovo, e basta. 
Il posto era bello, però acqua niente. C'era un pozzo ... avevano appena fatto l'acquedotto, e avevano messo qualche fontana. 
Noi avevamo un pozzo e buttavamo giù la secchia con una corda e poi tiravamo su l'acqua. Siamo stati veramente bene. L'acqua del pozzo era buona.
Eravamo in dieci famiglie, cinque di Vidor e cinque di Cornuda. C'eravamo noi, un mio zio (Luigi Manto detto Ciodèra) con la sua famiglia, poi Bernardi Giovanni, Leonardo Feletto e poi una famiglia composta da mamma e due figli perché gli altri erano militari, anche questa Manto: Giovanna (Nana). Delle altre famiglie di Cornuda non ricordo il nome.
Ci siamo trovate benissimo, benissimo ... perché guarda - per essere stati profughi - il primo giorno, carabinieri alla porta, perché tutto il popolo veniva a vedere i profùmi
Ci chiamavano i profùmi, perché loro non riuscivano a capire la parola profugo. Però ci portavano sempre roba, tanta farina bianca quella da fare il pane, fichi secchi. Adesso non ricordo più quanto e cosa, ma tutti portavano qualcosa, arance, ci facevano la carità.
La Commissione del paese aveva sistemato la cucina dentro da questo vescovo e avevano iniziato a farci da mangiare loro, minestrone con i ceci, con le fave ... un giorno due e noi eravamo a terra! Non eravamo in grado di digerire il suo mangiare. Così hanno cercato di far sistemare la cosa dandoci un sussidio, e arrangiarsi col mangiare. Il loro mangiare non eravamo capaci di accettarlo, non ne eravamo abituati.
Poi c'erano questi signori, perché era un paese grosso, che specie alla domenica ci portavano a mangiare a casa loro. Noi eravamo tre sorelle [...] venivano a prenderci e ci portavano a casa loro. 
Un giorno di domenica viene uno - e alla porta c'erano sempre i carabinieri - con un traino a due ruote grandi, e un cavallo. Hanno preso su queste bambine e ci hanno portato su una grande villa in campagna da una signora di nome Caputi. Ben, che pranzo! Mi sembra di star mangiandolo ancora adesso. C'erano i trascinati [gli strascinati] fatti a mano, simili alle orecchiette ma diversi; c'erano formaggi, carne, dolci, di tutto, con i camerieri che ci servivano. Mangerei anche adesso...
La Commissione era passata a questua per tutta la città e tutti hanno dato un mucchio di roba. Chi un vestito, chi le scarpe ... che una volta noi non si poteva averle. Era buona gente. Solo che la Commissione aveva paura [?], non sapeva come potessero reagire a vedere i profùmi ... e allora hanno distribuito tutta questa roba... Alle mie sorelle Pierina e Gina sono capitati tre bei vestiti e a me un paio di scarpe; però le scarpe non erano da donna, erano da uomo con i legacci, ma io le ho messe lo stesso, tanto prima avevo un paio di galosce di legno.
Andar su questa grandissima villa, con camerieri e di tutto, mi sembra che il marito fosse un deputato... 
Siccome avevano regalato filo per fare le calze, là non era freddo, io per andare da questa signora non avevo le calze; allora Nana Manto che era profuga con noi mi ha fatto lei le calze, con i ferri. Ma non è riuscita a finirle tutte due per il giorno che dovevo andare alla festa e allora me le sono messe una completa e una con la punta del piede ancora da finire, ma tanto non lo si vedeva perché c'erano le scarpe.

Nastro 1994/31 - Lato B

Le calze erano di cotone, e di colore viola.

Mi mostra un documento che conserva ancora. «Il sindaco certifica che Cortesia Antonio [suo padre] fu Giovanni, ha riscosso il sussidio ordinario fino al 15 giugno 1919».

Il ritorno
Mio padre è venuto su prima in modo da sistemare un po' e di trovare una baracca. Era una baracca lunga 16 metri perché eravamo 8 fratelli e i genitori. Una volta messo a posto la baracca, ci ha scritto e siamo venuti su anche noi. Ci hanno sistemati dove adesso c'è la casa di riposo di Vidor.
Il terreno era tutta una buca. La strada, questo sì me lo ricordo ... il giorno dopo che eravamo arrivati avevo intenzione di camminare per la strada, ma le granate avevano fatto una buca dietro l'altra ed era impossibile camminare normalmente, fare una passeggiata. Erano passati 7 mesi, ma mettere a posto un paese intero che era tutto per terra, ce ne voleva.
Si viveva col sussidio.
[...] Non sono andata a scuola a Ruvo, non ne aveva voglia; mia sorella Pierina invece sì. Per il dialetto diverso non era difficile capirsi, e dopo un po' si iniziava anche a parlare come loro. I ragazzi non ricordo che ci prendessero in giro.
Ricordo che i ragazzini andavano in giro "nudi infanti" per la strada, solo i maschi.
Poi là c'era un delegato di Pubblica Sicurezza e siccome questi signori venivano a prendere i ragazzini, lui ha preso me. Da quella volta, finché il Delegato è rimasto al mondo ho sempre corrispondenza con lui. Poi lui è passato commissario di Pubblica Sicurezza. Si chiamava Addario Socrate ed è stato trasferito in varie città: Ravenna, L'Aquila. Aveva una figlia vecchia come me che si chiamava Clara ed ora è morta. Veniva a prendermi tutte le domeniche per mangiare a casa sua. Alla fine è stato chiamato a Imperia, dove sono andata anch'io ad abitare, dopo sposata.
Mio marito Marino Falcade, qua del paese di Vidor, aveva infatti trovato da lavorare  là proprio grazie al commissario, e faceva il falegname. Siamo rimasti a Imperia dieci anni, dal 1934, e dopo a causa della guerra e per il fatto che la mamma e la sorella del marito non stavano bene, l'8 settembre del 1943 ... mio marito, che era del 1906, è venuto via da Imperia e siamo ritornati a Vidor.
Dopo la Prima guerra venivano a lavorare a Vidor, alla sua ricostruzione, anche quelli dei paesi limitrofi. Noi poi siamo andati a lavorare nella filanda Zadra qua in paese lungo la strada. Io ho iniziato a lavorare subito, fin da piccola a 12 anni. Ho lavorato fino a 27 anni quando mi sono sposata e siamo andati via.
Ho avuto due figli: uno abita con me ed è vedovo e una figlia che abita a Crocetta.

Nel cortile della sua casa c'è ancora una baracca della prima guerra, risistemata e utilizzata dal figlio come piccolo laboratorio di falegnameria. Non è però la baracca in cui abitavano.

La mamma di mio marito, Marina Viviani, si è portata via con sé queste cartoline del paese, quando è andata profuga. Lei era rimasta sotto i tedeschi, e lei sì che se l'è passata male: le sue figlie andavano a carità.
[Sono otto cartoline che la signora Cortesia ha ora appese all'ingresso della sua abitazione]

Nastro 1994/34 - Lato B

Aggiunte e precisazioni, 16 settembre 1994

Quando siamo stati a Caerano, dopo un giorno due, mio papà da Caerano è ritornato a Vidor, per vedere la sua roba. Avevamo una misera stalletta, con due bestie e il maiale... Il maiale lo ha trovato impiccato sotto l'arco del municipio di Vidor, e le bestie non c'erano più, erano state portate via. E non era ancora stato fatto saltare il ponte. 
Noi eravamo partiti prima che il ponte fosse fatto saltare. Il parroco aveva chiamato i capifamiglia per dire «guardate che è meglio passare il Piave»; vuol dire che il maiale gliel'anno ammazzato gli italiani. E c'era il vino che correva per le strade ... probabilmente sono stati gli italiani per non lasciare la roba ai tedeschi. Anzi sono stati sicuramente gli italiani, perché i tedeschi non c'erano ancora.
Siamo partiti da Vidor con due carri, quello più piccolo in cui c'eravamo noi, era un carro a due ruote, mentre l'altro ne aveva quattro. Sul carro davanti a guidare c'era Luigi Cassol, mio zio, con due vacche.
Noi lavoravamo un campetto e mezzo di terra del prete, ed eravamo in dieci in famiglia. Vivevamo così, arrangiandosi.
Della carne dei cavalli non so chi fosse che andava a prenderla [a Caerano], so solo che la gente per mangiare andava a disseppellire i cavalli, che non so perché fossero stati seppelliti.
A Ruvo di Puglia non è mai venuto a trovarci il vescovo in persona.
Attaccata alla cattedrale di Ruvo c'era una scalinata di 5-6 scalini e si andava su, sul palazzo del vescovo. Di qua c'era una scala a pioli in legno che andava sul campanile e una donna anziana, quando c'era da suonare le campane andava su per queste scale. Saranno stati cinquanta scalini e andava a suonare la campana direttamente con il batocchio.
Farina di polenta là non l'abbiamo mangiata mai. Non si trovava la farina da polenta, non la conoscevano. Loro avevano ceci e fave, che noi non abbiamo voluto mangiare; era un cibo che non ci andava.
A Ruvo eravamo trattati bene e i nostri vecchi erano loro che facevano da mangiare. Polenta non ce n'era, ma c'era pane, molto buono che si comprava con la tessera, e si comprava anche il resto, la carne ... ma niente ceci e fave.
I trascinati erano buonissimi; mi sembra perfino di esser là anche adesso a mangiarli, da quella signora. Le dico che erano qualcosa di speciale, anche se là era un tipo di pasta che facevano tutti.
Dal commissario Addario c'era la solita pastasciutta, perché lui non era da là, era dall'Abruzzo.
Io mi sono sposata il 2 giugno 1934 e poi mi sono trasferita subito a Imperia, con Marino Falcade.
Mio padre si chiamava Antonio Cortesia e la mamma Antonia Miotto da Vidor; hanno avuto 8 figli (vivi).

1 commento:

  1. Una storia bellissima. Complimenti.

    Fa vedere quei legami nascosti, ma fortissimi, che tengono unita l'Italia.

    Grazie da Ruvo di Puglia, cent'anni dopo.

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