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venerdì 14 maggio 2010

Angela Salviato, Musile di Piave (VE)

Nata nel 1907 in località Cascinelle.

Nastro 1993/6 - Lato B [da 34:11 su cassetta originale]          13 settembre 1993     Audio originale integrale

Siamo partiti proprio il 1. novembre 1917 e c'erano i soldati che passavano con un ponte di barche di qua del Piave. Quando siamo partiti era di mattina verso le 9,30-10. Io allora abitavo sotto Musile, finché non mi sono sposata, e dopo sposata anche, per un po'. Dopo sono venuta ad abitare a Fossalta.
A Musile abitavo in località Case Bianche.
Quando sono partita profuga ho fatto otto giorni di treno. Giorno e notte finché non siamo arrivati in Calabria a Nocera Terinese. Ma prima eravamo stati fermi per quindici giorni.
A Nocera Terinese siamo rimasti per circa due anni.
Dalle Case Bianche abbiamo dovuto fuggire perché hanno tagliato l'argine del Sile e un metro e mezzo di acqua è entrato nella nostra terra e nella nostra casa.
Avevamo la campagna, sono arrivate le guardie e ci hanno mandato via...
Per prima tappa ci siamo fermati a Campo de Piero, da Romanese. Lo chiamano meglio Campopiero, [Ca' Malipiero] ma anche da là abbiamo dovuto andarcene. 
Siamo partiti il 1. di novembre, il giorno di tutti i santi. Siamo andati a piedi a prendere il treno a Meolo. Io avevo un mio fratello piccolo in spalla e l'ho portato per tutti quei chilometri. Eravamo sei fratelli e nostro padre non si sapeva dove fosse perché era in guerra.
Io ero la più grande, e il più piccolo aveva sedici mesi. Mia madre portava in braccio il piccolo e io portavo un altro fratello, Guerrino, che aveva male a un piede e aveva due anni. Lo portavo in spalla e si camminava sulla Triestina.
Non ci siamo portati via da casa niente. Siamo andati via con quello che si aveva addosso e basta. Non ci hanno fatto prendere su niente, niente, niente. Le guardie sono venute là e ci hanno detto solo: via, via, via...
Arrivati a Meolo siamo stati messi in una tradotta di soldati con paglia sul pavimento, e corri... «Se à coresto oto jorni», e quando siamo arrivati dove era previsto, non c'era posto per riceverci. Torna a montare su questa tradotta e via ancora.
Per primo ci siamo fermati a Firenze, ma là non c'era posto. Dopo ci siamo fermati a Catanzaro e vi siamo rimasti per quindici giorni, tutti dentro a un grande stanzone, non ricordo bene cosa fosse. Poi finalmente siamo giunti a destinazione a Nocera Terinese, dove ci hanno sistemati in un convento di frati. «E là se patìa a fame, èco, cossa volo che ghe disa»
Era un paesino piccolo in cui tutti si arrangiavano con quel pochino che avevano. Il convento era vuoto, i frati non c'erano. Noi eravamo assieme a un'altra famiglia, per un totale di sessanta persone. Anche l'altra famiglia proveniva da Musile.
Siamo rimasti per tanto tempo senza parlare con gli abitanti del posto, per via della lingua. Sensa capirse ... e dopo, un po' alla volta, «se ga scomissià a capirse qualche parola, e mi son 'nata anca imosina» [ ... sono andata anche a elemosinare]. 
Si era sopra a un monte, in questo convento sopra la montagna, e non c'era niente. Tutti avevano quel pochino che era appena sufficiente per la loro famiglia. [...] Non che fossero cattiva gente, ma non ne avevano neanche loro. Allora il parroco del paese ci ha fatto una carta con la quale si andava negli altri paesi e si passavano i fiumi con le vacche e un carrettone grande, con le ruote alte. Fame tanta, caro. Tanta fame.
No ièra né un gioss de late, né gnente [non c'era né un goccio di latte, né niente].
I miei zii più anziani hanno cominciato a protestare e ci hanno mandato un sacco di riso che sapeva da petrolio, che non si riusciva a mangiarlo; per quanto lo si facesse bollire, sempre puzzava da petrolio. Ma se o magnéa, se o magnéa, caro, parché a iera fame. 
Quando è arrivato questo sacco di riso, noi eravamo tutti contenti, e invece sapeva da petrolio.
Abbiamo preso tutti la spagnola, tutti 64. Tutti ammalati, senza niente.
L'unica cosa che c'era in abbondanza era l'olio d'oliva e allora le nostre mamme facevano bollire una pignatona di acqua ci si metteva dentro dell'olio e si beveva quello, senza metterci dentro un po' di pane, senza niente.

Nastro 1993/07 - Lato A        18 settembre 1993
[La parte iniziale di questo lato della cassetta è stata sovra-registrata il 3.3.1994 dall'intervista a Renato Schioppalalba (archiviata come 1994.1b). Si è salvata comunque la trascrizione che nel frattempo era stata fatta. L'audio originale dell'intervista e la rispettiva trascrizione riprendono dal minuto 25:07  - NdC, 1 febbraio 2015]

A Nocera Terinese è nata anche una mia cuginetta.    
La spagnola: una gran febbre a quaranta. Forse erano i soldati che venivano a casa e portavano l'infetto.
Veniva il dottore del paese a visitarci, anche più volte al giorno e diceva: «Guarda, poveri cristiani, poveri profughi». Lo diceva con il suo accento, come che i parléa lori ... «sensa un giosso de late».
Mia madre quando sentiva le capre che venivano giù dalla montagna mi diceva: «Ciapa Angea a pignatèa», vai a prendere un po' di latte; e i pastori, i pecorari, fermavano una capra e mi riempivano il pentolino.


Il ritorno a casa è avvenuto sempre col treno; questa volta treno di terza classe con le sedie in legno e ci sono voluti tre giorni.
Siamo arrivati a Musile, in campagna ... La nostra casa era tutta rotta e in tutta la zona c'erano soldati morti. Quanti! Non si poteva neanche venir fuori a fare un passo. Era tutto uno, tutto uno.
Con questi carrettoni, con questi cassoni, venivano a portarli via. Poi prendevano le bombe, le ammucchiavano e alla sera sul tardi ci dicevano "giù tutti", e noi ci si nascondeva in un angolo della casa. 
Dopo ci hanno dato la baracca di legno, finché non ci hanno ricostruito la casa.
Quando siamo ritornati, "dopo do ani", non c'erano ancora le baracche. Era luglio e abbiamo dormito all'aperto. Solo dopo ce le hanno portate.
Malgrado fossimo già nel luglio del 1919, ancora c'erano i morti per terra. Non ossi, ma proprio soldati, vestiti e non seppelliti ... là sopra la terra.
In quell'occasione ci siamo anche presi la malaria.
E questi morti li portavano via, sui cimiteri. Si vedevano ancora questi morti, ce n'erano tanti, tanti ... quando siamo ritornati a casa. Era tutto un deserto, tutto un bosco, con quelle erbe alte, i paveróni. E in quel groviglio c'erano tuti sti morti, poaréti, tuti soldài.
Nella baracca siamo rimasti un po' di tempo, poi il Genio ha dato il via ai muratori per la ricostruzione.
Le bombe le facevano scoppiare verso il pomeriggio. Facevano di quegli scoppi e di quelle buche! E poi le chiudevano.
Non c'erano invece reticolati sui nostri campi, solo tante bombe e tanti morti.
Dopo che era stata ripulita la terra l'abbiamo arata con le bestie che ci hanno dato i soldati. Le bestie erano grandi grandi, con questi corni lunghi. Gli zii un po' alla volta hanno sistemato la campagna e l'anno dopo l'hanno messa in produzione.
La nostra frazionetta delle Case Bianche, non aveva chiesa. Era composta solo da un piccolo gruppo di case. In famiglia eravamo in 37. Prima della guerra eravamo in affitto, non ricordo di chi. Dopo la guerra siamo diventati mezzadri sotto Bizzarro. Si lavorava una campagna di 84 campi. E in un'unica casa erano in cinque fratelli sposati, cinque famiglie. [...]

Viaggio di andata. Otto giorni che si correva in quel treno, senza mangiare, senza dormire, senza un po' di gabinetto per i propri bisogni. Si faceva su un vaso e poi un colpo e fuori dal treno. Ad un certo punto il treno si ferma e vediamo un prato pieno di cavalli, con tutte queste "bisacche" colme di carrube; e noi avevamo fame. Allora un mio zio è sceso dal treno e si è fatto dare dare una "bisacca" carica di carrube, indicando i suoi figli fermi nella tradotta.
Con tutta la fame che avevamo in corpo, abbiamo mangiato carrube, carrube, carrube ... e per poco non morivamo tutti. Ci avevano chiuso l'intestino. [Fine parte sovra-registrata]

Cassetta 1993.07   Lato A [dal minuto 25:07 alla fine della cassetta]  18 settembre 1993

[…] [Riprende sincronizzazione con audio]

26:50 Il papà era stato prigioniero in Austria e al ritorno si fermò un pochi di mesi dalla nonna a Vallio, per riprendersi un po’ perché era magro, e poi un po’ alla volta riuscì a venirci  a trovare in Calabria, perché  lui non sapeva dove fossimo, né noi in precedenza sapevamo dove lui fosse prigioniero.
27:55 “Devo fare un libro, passerà un paio di anni, prima che lo faccia”

“Eh, ma non sarò qua” … “Deve tener duro! che dopo le porterò, le farò vedere il libro”.

27:11 Mio papà è venuto a casa che pareva uno scheletro. Quanta fame ha patito anche lui, sotto i tedeschi. Mi pare che il papà lavorasse la terra, diceva che c’erano tante patate.

29:42 Il padre aveva nome Giovanni Salviato, e la mamma Amalia. Avevano 8 figli, quattro maschi e quattro femmine
30:11 A Nocera Terinese non sono andata a scuola, e neanche al ritorno, perché era tutto rotto. Ho fatto solo i primi giorni della seconda elementare, prima di partire profuga.
Sapevo fare la firma, ma ora non più.
31:22 - Avevate amici, a Nocera?
Si stava tutti fra di noi profughi. E chi capiva cosa dicevano loro?
Poi erano cattivi, guai al mondo. C’erano, per dire, i fidanzati che si [?]…
- Se per caso qualche ragazzo più vecchio del vostro gruppo andava assieme a una ragazza delle loro…
No, no, nessuno. Anche le mie cugine - si era in tante ragazze - … si restava fra di noi.
- Non ha ricordi di aver avuto amici del posto?
No. Si faceva fatica a capire… solo più tardi siamo riusciti a capire qualche parola.
32:26 Ci chiamavano quatralelle [?] e i maschi quatr […] , non ricordo più.
- Nel complesso erano buoni o cattivi [gli abitanti del posto]?
Non erano né buoni né cattivi, noi si stava per conto nostro.
- Non parlavate neanche col prete?
Sì, si andava anche a messa, giù, dove c’era la chiesa. E il prete vecchio ci diceva “Giovinette quanta pena [pecà] che mi fate: venite sopra da me che vi do un pochi di fichi”. Ci portò su per una scaletta come quella che - una volta - usavano le galline per andare sul pollaio. Ci ha portato in una stanza tutta scura, ha tirato fuori una cassa da morto da sotto il letto e ci ha dato i fichi. Aveva la cassa da morto sotto il letto.
Li abbiamo presi, ma poi non li abbiamo mangiati, li abbiamo buttati via. Ciò, erano dentro una cassa da morto!
35:15 C’era qualche lavoretto là in paese?
Sì, hanno fatto un ponte su un fiume e noi con le gerle, con le ceste di legno poggiate sulla testa, si portava la terra.
- Anche voi bambine?
Sì, sì, tutti. Portavamo terra, pietre, materiale per il ponte.
- Così avete guadagnato qualcosa.
40 centesimi al giorno, gli uomini, e a noi, quello che rimaneva.
- Con quell’olio e acqua che facevate quelle gran pentolate, dentro ci mettevate un po’ di farina?
Non c’era niente! Niente. Acqua e olio, si mangiava, si beveva, come bere il caffè, il latte. Alla sera, a mezzogiorno.
Non le ho detto che ci avevano portato un sacco di riso? E le mie zie e mio zio [me barba] facevano bollire e buttavano via l’acqua, bollire e buttare via l’acqua: veniva tutta una papparella, e il riso continuava a sapere sempre di petrolio. […]
36:50 Mi chiamo Angela Salviato vedova Sforzin, nata il 28 settembre 1907; “sono nata sulle bonifiche e quando mi sono sposata sono andata a stare alle Case Bianche. Sulle bonifiche vicino al manufatto” […]. I miei lavoravano la terra per un padrone di cui non ricordo il nome.
Abitavamo in una bella casa in muratura, in otto fratelli, ma le cognate avevano dei cugini; in tutto eravamo trenta…
39:35 Dopo sposata sono andata a stare alle Case Bianche, ma prima abitavamo in una località chiamata Cascinelle, dove quella volta [di Caporetto] è arrivata l’acqua del Sile perché hanno tagliato l’argine, ed era proprio il momento dei raccolti; andò tutto sotto acqua e non si prese nessun rimborso.
[…]
41:12 Da profughi abbiamo tanto patito e in più abbiamo preso la spagnola, tutti, non solo io.
Sono arrivati i soldati che erano stati al fronte e ce l’hanno “attaccata”.
E quando siamo ritornati a casa, a lavorare qua, ci siamo presi la malaria.
- In cosa consisteva la malaria?
Febbre. Due ore di febbre alta, alta. A noi davano dei cioccolatini di chinino, e ai grandi davano chinino [puro], quelle piastrine rosse, là.
- Quanti cioccolatini vi davano?
Ce lo dicevano loro quanti mangiarne, perché era chinino, non erano mica cioccolatini. Avevano il gusto della cioccolata, ma era chinino, si doveva mangiarlo, masticarlo.
Non durava tante ore, ma due ore: la febbre a quaranta, e brividi, e freddo; ci si copriva…
L’abbiamo presa appena tornati a casa dal profugato.
- Tutti i morti che ha visto al ritorno, erano alle Cascinelle?
Sì, sì.  [43:20 fine cassetta] 


mercoledì 12 maggio 2010

Rosa Cortesia, Vidor (TV)

Nata il 12 febbraio 1908.

Nastro 1994/31 - Lato A                    3 agosto 1994

Erano i primi di novembre, giornate piovose. Eravamo in cinque fratelli, io (1908), mia sorella Teresa (1903)... 
Una sorella era a Milano, due fratelli erano militari. 
Ordine del parroco, che suona la campana ... ci convince a passare perlomeno di là del ponte.
Mio padre era stato richiamato, malgrado l'età che aveva (era del 1870). Era stato chiamato perché dai 15 ai 60 anni. Comunque è riuscito a scappare e a venire a casa per caricare i figli.
Sul treno per andare a Bari siamo saliti a Montebelluna, e mia madre [quando è passata per] Rimini ha chiesto della caserma, ma le hanno detto che suo figlio Costante era in spiaggia di servizio... 
Noi allora abitavamo in centro a Vidor, dove ora c'è la farmacia. Facevamo i contadini, sotto il prete.
Il prete è venuto con noi e ha dovuto camminare anche lui, quando ci siamo allontanati da Vidor.
Mio nonno Giovanni Cortesia invece è rimasto qua. «No, mi stae qua, ghe tende a a casa» ... e invece è rimasto sotto i tedeschi ed è morto di fame. Lo hanno portato dalle parti di Farrò, non molto lontano da Vidor.
Mio zio Cassol che stava qua a Vidor aveva delle bestie e le ha attaccate al carro. Mio padre con un carretto a due ruote ha legato le stanghe al carro e così siamo partiti da Vidor per Caerano San Marco, con noi sopra il carrettino. 
Piova, perché era novembre.
Sul ponte tutti che si affannavano per andare di là del Piave.
A Caerano siamo rimasti 40 giorni. Combinazione sono cadute due bombe a Montebelluna e allora hanno preso per prima cosa i profughi e ci hanno portato col treno a Bari.
In questi quaranta giorni siamo stati trattati bene dai Garbuio, brava gente, brava gente davvero; perché il latte, la polenta, i fagioli ... di tutto ci davano, sì, sì, proprio brava gente.
In quel borgo c'erano i francesi soldati, che ammazzavano i cavalli, li sotterravano e alla notte [i profughi] li tiravano su per mangiarli.

A Ruvo di Puglia ci hanno sistemato sul palazzo del vescovo. Siamo arrivati di sera. Era una tradotta e la gente per la strada ci accoglieva bene, brava gente. 
[Durante il viaggio], quando il treno si fermava, c'erano quelle che facevano servizio sui treni, quelle messe apposta per i profughi che ci portavano la cioccolata, portavano i biscotti, le arance. 
Alla sera, dopo tre giorni e due notti di viaggio, siamo arrivati a Ruvo.
Ci hanno portato in una caserma dei carabinieri dove c'era la tavola piena di tutto. C'era soprattutto frutta: arance, pistacchi, fichi... Poi ci hanno portato nella chiesa di San Domenico sempre a Ruvo, e là hanno sistemato i letti e abbiamo dormito. Il giorno successivo ci hanno portati tutti in questo palazzo vescovile. Un grande palazzo. C'era un chiostro con delle bellissime colonne: era il palazzo del vescovo, e basta. 
Il posto era bello, però acqua niente. C'era un pozzo ... avevano appena fatto l'acquedotto, e avevano messo qualche fontana. 
Noi avevamo un pozzo e buttavamo giù la secchia con una corda e poi tiravamo su l'acqua. Siamo stati veramente bene. L'acqua del pozzo era buona.
Eravamo in dieci famiglie, cinque di Vidor e cinque di Cornuda. C'eravamo noi, un mio zio (Luigi Manto detto Ciodèra) con la sua famiglia, poi Bernardi Giovanni, Leonardo Feletto e poi una famiglia composta da mamma e due figli perché gli altri erano militari, anche questa Manto: Giovanna (Nana). Delle altre famiglie di Cornuda non ricordo il nome.
Ci siamo trovate benissimo, benissimo ... perché guarda - per essere stati profughi - il primo giorno, carabinieri alla porta, perché tutto il popolo veniva a vedere i profùmi
Ci chiamavano i profùmi, perché loro non riuscivano a capire la parola profugo. Però ci portavano sempre roba, tanta farina bianca quella da fare il pane, fichi secchi. Adesso non ricordo più quanto e cosa, ma tutti portavano qualcosa, arance, ci facevano la carità.
La Commissione del paese aveva sistemato la cucina dentro da questo vescovo e avevano iniziato a farci da mangiare loro, minestrone con i ceci, con le fave ... un giorno due e noi eravamo a terra! Non eravamo in grado di digerire il suo mangiare. Così hanno cercato di far sistemare la cosa dandoci un sussidio, e arrangiarsi col mangiare. Il loro mangiare non eravamo capaci di accettarlo, non ne eravamo abituati.
Poi c'erano questi signori, perché era un paese grosso, che specie alla domenica ci portavano a mangiare a casa loro. Noi eravamo tre sorelle [...] venivano a prenderci e ci portavano a casa loro. 
Un giorno di domenica viene uno - e alla porta c'erano sempre i carabinieri - con un traino a due ruote grandi, e un cavallo. Hanno preso su queste bambine e ci hanno portato su una grande villa in campagna da una signora di nome Caputi. Ben, che pranzo! Mi sembra di star mangiandolo ancora adesso. C'erano i trascinati [gli strascinati] fatti a mano, simili alle orecchiette ma diversi; c'erano formaggi, carne, dolci, di tutto, con i camerieri che ci servivano. Mangerei anche adesso...
La Commissione era passata a questua per tutta la città e tutti hanno dato un mucchio di roba. Chi un vestito, chi le scarpe ... che una volta noi non si poteva averle. Era buona gente. Solo che la Commissione aveva paura [?], non sapeva come potessero reagire a vedere i profùmi ... e allora hanno distribuito tutta questa roba... Alle mie sorelle Pierina e Gina sono capitati tre bei vestiti e a me un paio di scarpe; però le scarpe non erano da donna, erano da uomo con i legacci, ma io le ho messe lo stesso, tanto prima avevo un paio di galosce di legno.
Andar su questa grandissima villa, con camerieri e di tutto, mi sembra che il marito fosse un deputato... 
Siccome avevano regalato filo per fare le calze, là non era freddo, io per andare da questa signora non avevo le calze; allora Nana Manto che era profuga con noi mi ha fatto lei le calze, con i ferri. Ma non è riuscita a finirle tutte due per il giorno che dovevo andare alla festa e allora me le sono messe una completa e una con la punta del piede ancora da finire, ma tanto non lo si vedeva perché c'erano le scarpe.

Nastro 1994/31 - Lato B

Le calze erano di cotone, e di colore viola.

Mi mostra un documento che conserva ancora. «Il sindaco certifica che Cortesia Antonio [suo padre] fu Giovanni, ha riscosso il sussidio ordinario fino al 15 giugno 1919».

Il ritorno
Mio padre è venuto su prima in modo da sistemare un po' e di trovare una baracca. Era una baracca lunga 16 metri perché eravamo 8 fratelli e i genitori. Una volta messo a posto la baracca, ci ha scritto e siamo venuti su anche noi. Ci hanno sistemati dove adesso c'è la casa di riposo di Vidor.
Il terreno era tutta una buca. La strada, questo sì me lo ricordo ... il giorno dopo che eravamo arrivati avevo intenzione di camminare per la strada, ma le granate avevano fatto una buca dietro l'altra ed era impossibile camminare normalmente, fare una passeggiata. Erano passati 7 mesi, ma mettere a posto un paese intero che era tutto per terra, ce ne voleva.
Si viveva col sussidio.
[...] Non sono andata a scuola a Ruvo, non ne aveva voglia; mia sorella Pierina invece sì. Per il dialetto diverso non era difficile capirsi, e dopo un po' si iniziava anche a parlare come loro. I ragazzi non ricordo che ci prendessero in giro.
Ricordo che i ragazzini andavano in giro "nudi infanti" per la strada, solo i maschi.
Poi là c'era un delegato di Pubblica Sicurezza e siccome questi signori venivano a prendere i ragazzini, lui ha preso me. Da quella volta, finché il Delegato è rimasto al mondo ho sempre corrispondenza con lui. Poi lui è passato commissario di Pubblica Sicurezza. Si chiamava Addario Socrate ed è stato trasferito in varie città: Ravenna, L'Aquila. Aveva una figlia vecchia come me che si chiamava Clara ed ora è morta. Veniva a prendermi tutte le domeniche per mangiare a casa sua. Alla fine è stato chiamato a Imperia, dove sono andata anch'io ad abitare, dopo sposata.
Mio marito Marino Falcade, qua del paese di Vidor, aveva infatti trovato da lavorare  là proprio grazie al commissario, e faceva il falegname. Siamo rimasti a Imperia dieci anni, dal 1934, e dopo a causa della guerra e per il fatto che la mamma e la sorella del marito non stavano bene, l'8 settembre del 1943 ... mio marito, che era del 1906, è venuto via da Imperia e siamo ritornati a Vidor.
Dopo la Prima guerra venivano a lavorare a Vidor, alla sua ricostruzione, anche quelli dei paesi limitrofi. Noi poi siamo andati a lavorare nella filanda Zadra qua in paese lungo la strada. Io ho iniziato a lavorare subito, fin da piccola a 12 anni. Ho lavorato fino a 27 anni quando mi sono sposata e siamo andati via.
Ho avuto due figli: uno abita con me ed è vedovo e una figlia che abita a Crocetta.

Nel cortile della sua casa c'è ancora una baracca della prima guerra, risistemata e utilizzata dal figlio come piccolo laboratorio di falegnameria. Non è però la baracca in cui abitavano.

La mamma di mio marito, Marina Viviani, si è portata via con sé queste cartoline del paese, quando è andata profuga. Lei era rimasta sotto i tedeschi, e lei sì che se l'è passata male: le sue figlie andavano a carità.
[Sono otto cartoline che la signora Cortesia ha ora appese all'ingresso della sua abitazione]

Nastro 1994/34 - Lato B

Aggiunte e precisazioni, 16 settembre 1994

Quando siamo stati a Caerano, dopo un giorno due, mio papà da Caerano è ritornato a Vidor, per vedere la sua roba. Avevamo una misera stalletta, con due bestie e il maiale... Il maiale lo ha trovato impiccato sotto l'arco del municipio di Vidor, e le bestie non c'erano più, erano state portate via. E non era ancora stato fatto saltare il ponte. 
Noi eravamo partiti prima che il ponte fosse fatto saltare. Il parroco aveva chiamato i capifamiglia per dire «guardate che è meglio passare il Piave»; vuol dire che il maiale gliel'anno ammazzato gli italiani. E c'era il vino che correva per le strade ... probabilmente sono stati gli italiani per non lasciare la roba ai tedeschi. Anzi sono stati sicuramente gli italiani, perché i tedeschi non c'erano ancora.
Siamo partiti da Vidor con due carri, quello più piccolo in cui c'eravamo noi, era un carro a due ruote, mentre l'altro ne aveva quattro. Sul carro davanti a guidare c'era Luigi Cassol, mio zio, con due vacche.
Noi lavoravamo un campetto e mezzo di terra del prete, ed eravamo in dieci in famiglia. Vivevamo così, arrangiandosi.
Della carne dei cavalli non so chi fosse che andava a prenderla [a Caerano], so solo che la gente per mangiare andava a disseppellire i cavalli, che non so perché fossero stati seppelliti.
A Ruvo di Puglia non è mai venuto a trovarci il vescovo in persona.
Attaccata alla cattedrale di Ruvo c'era una scalinata di 5-6 scalini e si andava su, sul palazzo del vescovo. Di qua c'era una scala a pioli in legno che andava sul campanile e una donna anziana, quando c'era da suonare le campane andava su per queste scale. Saranno stati cinquanta scalini e andava a suonare la campana direttamente con il batocchio.
Farina di polenta là non l'abbiamo mangiata mai. Non si trovava la farina da polenta, non la conoscevano. Loro avevano ceci e fave, che noi non abbiamo voluto mangiare; era un cibo che non ci andava.
A Ruvo eravamo trattati bene e i nostri vecchi erano loro che facevano da mangiare. Polenta non ce n'era, ma c'era pane, molto buono che si comprava con la tessera, e si comprava anche il resto, la carne ... ma niente ceci e fave.
I trascinati erano buonissimi; mi sembra perfino di esser là anche adesso a mangiarli, da quella signora. Le dico che erano qualcosa di speciale, anche se là era un tipo di pasta che facevano tutti.
Dal commissario Addario c'era la solita pastasciutta, perché lui non era da là, era dall'Abruzzo.
Io mi sono sposata il 2 giugno 1934 e poi mi sono trasferita subito a Imperia, con Marino Falcade.
Mio padre si chiamava Antonio Cortesia e la mamma Antonia Miotto da Vidor; hanno avuto 8 figli (vivi).

Antonia Coran, Lovadina (TV)

Nata nel 1910.

Nastro 1994/3 - Lato A                      21 aprile 1994
    
Sono figlia di Giuseppe Coran, originario dal Friuli. 
Mio padre da giovane faceva il servitore in una famiglia di contadini di Lovadina dove ormai era diventato di casa e dove ha vissuto anche un po' di tempo appena sposato, tanto che i figli del padrone lo chiamavano "zio Bepi" in segno di rispetto. Ma da grande mio papà è andato tanto a lavorare all'estero.
Era servitore nella famiglia dei Pol. Ci sono in vita ancora i figli, di quella famiglia: Pol Giuseppe, di Lovadina, detto Bepi Brosa... I Pol a Lovadina sono tutti con soprannome Brosa, oppure Brosét, Brosàt.
Mio padre si è sposato con una ragazza di Lovadina, Teresina Doro, quando era già vedovo ed aveva un figlio di circa cinque anni che si chiamava Mario (classe 1899, che ha partecipato alla guerra ed è stato ferito a una mano, rimanendo mutilato. Prendeva una pensione).
Dal nuovo matrimonio è nato per primo Piero, nel  1907.
Nel frattempo mio papà aveva trovato lavoro in stabiimento a Spresian. Ma poi è andato tanto all'estero, Francia, Germania e anche in Italia; sempre come operaio. Più precisamente molto spesso andava a lavorare nei boschi a tagliare legna. Prendevano [in appalto] dei lotti di bosco e mia madre lo pregava sempre: «Quando fai il passaporto, fallo per tutta la famiglia, non lasciarmi qua a casa con i figli». Gli uomini del paese, ma anche di Spresiano, organizzavano una squadra e andavano in un posto in cui sapevano che avrebbero trovato questo lavoro; forse c'era o c'era stato qualcuno, all'inizio, che li aveva avvertiti e informati. Qualcuno di questi emigranti è poi rimasto in Francia.
Mio padre andava via in Francia negli anni '20, quando io avevo 13 anni. Mia madre preparava la roba per il viaggio e gliela metteva nei sacchi. Mio padre è andato anche a lavorare un anno in Sardegna, ma non ricorda più a far cosa.
Aveva il soprannome di Bepi Ciri, soprannome che hanno preso tutti in famiglia, tranne mia madre, che è rimasta sempre Teresina Doro.
Abitavamo in paese a Lovadina, dopo la piazza, in Borgo Mas. La nostra casa è stata bombardata durante la guerra e al posto della casa ci hanno dato una baracca. Dopo siamo andati ad abitare nella casa in cui era nata la mamma.
Mi ricordo di quando siamo scappati. Pioveva sempre; tutti erano in subbuglio e il palazzo in cui abitavamo, el palazo de Scabèl [Scabello] era stato bombardato.
Erano diversi giorni che si era come in allarme per scampar via. Tanti erano già scappati. Mia mamma aveva appena comprato un porzeét picinin [porcellino piccolo] da mio santolo - suo compare - da cui lo comprava ogni anno. Quella volta erano due tre giorni che l'aveva comprato quando hanno deciso di andare via. Ormai mio padre e un fratello di mia madre dicevano ndémo via, via, via! anche perché mia zia aveva tre figli piccoli; così siamo andati via.
Ci siamo fermati a Catena, in una famiglia di contadini dove siamo rimasti pochi giorni. Poi mia mamma è ritornata a casa con questo suo fratello a prendere della roba e dopo abbiamo cominciato l'avventura di partire. 
Il porcellino era stato nel frattempo riportato indietro al santolo, che era un Casagrande e abitava "in campagna" (sempre a Lovadina) in località i Castèi, sulla strada che va a Treviso. Riportato indietro il porcellino, ma il santolo non lo voleva. Ma cosa doveva fare mia madre con questo porcellino? Alla fine glielo ha lasciato là lo stesso, anche senza ricevere soldi.
Siamo andati via da Lovadina con la mussa, de me barba [zio] Giovanni, fino a Carità. Da Carità siamo arrivati alla stazione di Treviso.
Avevamo portato via un po' di fagotti e un po' da mangiare, anche della farina. Avevamo ammazzato delle galline che poi fra l'altro i soldati ce le hanno anche rubate. Ce ne siamo accorti quando da Catena siamo tornati indietro a riprenderci della roba, anche da vestire, e riportare il maialino. Anche in casa erano già andati a rubare, ma non i militari, ma gente del paese che era passata a rubare...
Siamo rimasti a Catena di Villorba in una casa di contadini per qualche giorno. Si dormiva nella stalla o nel fienile. In quella casa eravamo solo noi; nelle case vicine c'erano anche altri del paese o profughi provenienti da altre zone. Ci hanno trattato bene, mi ricordo.
In paese a Lovadina sono rimaste abbastanza persone ... qualcuno perché voleva rubare, o perché non voleva andare via. Non so se il parroco sia scappato.
Una sorella di mia madre abitava a Fioccardo, vicino a Torino e siccome questa zia era morta, mia madre diceva: «Se dobbiamo andare in un'altra città, facciamo in modo di arrivare a Torino dove ci sono i nipoti». Tanto ha fatto e brigato che è riuscita ad andare a Torino. Ed è stata fortunata, perché sono stati in pochissimi quelli che sono riusciti ad andare a Torino.
Da Catena alla stazione di Treviso siamo andati con la mussa del barba, che poi ha dovuto ritornare indietro perché sia lui che mio papà erano militarizzati. Mio papà era con le segherie di Spresiano ed è stato costretto ad andare a Bergamo. [...]
Col treno siamo arrivati dopo molto tempo a Milano, e da Milano volevano mandarci in Bassa Italia. Era un treno merci, ed era strapieno di profughi. 
Quando eravamo alla stazione di Milano ... nei corridoi, come le bestie, con questi fagotti! Eravamo arrivati a Milano con tante peripezie, fermi in mezzo alla campagna nei rettilinei, scesi e risaliti nei vari treni. Siamo arrivati a Milano dopo vari giorni, mangiando qualcosa che ci eravamo portati via e qualcosa che ci davano, specie a noi che eravamo bambini.
A Milano ci hanno sistemati in una specie di capannone, così lo ricordo, e là c'era anche mio nonno (il papà di mia mamma) che era arrivato con un altro treno.
A Milano mia zia aveva una bambina piccola che stava poco bene ... forse volevano mandarci a Bergamo... ma mia mamma aveva il pallino di andare a Torino. E siccome la bambina stava poco bene mia mamma ha chiesto al custode di poter andar fuori, in farmacia a prendere qualcosa per la bambina ... e da là - essendo già stata a Torino - [quindi l'episodio si riferisce a quando già si trovavano a Torino] invece che andare in farmacia ha preso il tram che già conosceva bene ed è andata a Fioccardo dai nipoti che così hanno dato la garanzia che potevano ospitarla, condizione indispensabile per restare a Torino.
A Milano, in questa specie di capannone, noi eravamo da una parte e il nonno era da un'altra, ma non lo sapevamo. Anche mio papà era là a Milano, ma in un altro posto ancora.
Una mattina mio nonno era ancora a letto, perché era vecchio e stava poco bene e ha gridato: «Osta dell'osta seré che a porta che se sente fredo» e mio papà si è detto: «Ma quello dev'essere mio suocero». Infatti era lui. Il papà ha aperto un po' di più la porta per sentire meglio da dove veniva la voce e così si sono ritrovati.
Ricordo tanta confusione, in questi treni, e il fatto che dovevamo essere mandati a Bergamo. Ma mia madre voleva andare a Torino, e infatti ci è riuscita.
Da Fioccardo (vicino a Cavoreto) mia cugina più vecchia è arrivata alla stazione di Torino a testimoniare che ci avrebbe alloggiati e così ci hanno lasciato a Torino e siamo andati a Fioccardo in casa di questi cugini che erano da soli (la ragazza e un suo fratello); il padre era militare. In qualche maniera ci hanno alloggiati e là siamo rimasti per tutto il tempo della guerra.
Noi ragazzi si andava a scuola e mia madre andava a fare qualche mastel a qualche siora [lavare la biancheria di qualche signora]. Si andava nel bosco a fare fascine di legna, a rubarle, e poi anche a venderle; quelle che non si bruciavano, si vendevano. Cosa si doveva fare?
E poi mia madre sapeva andare per gli uffici, per il sussidio, per qualche coperta, le tessere del pane. Faceva tutto lei, per noi e per mia zia. Era brava.
Osta dell'osta era l'imprecazione di mio nonno ... non diceva mica una bestemmia!
Quando mio fratello più vecchio, Mario, è stato ferito alla mano, la mamma tanto ha fatto e brigato per gli uffici che è venuto a fare la convalescenza a Torino e non è più ritornato in guerra.
Io e mio fratello Piero siamo andati a scuola a Cavoretto. Mio papà e me barba hanno trovato lavoro là vicino, dove c'era una segheria. Ma dopo la guerra hanno voluto venire a casa; a tutti i costi ritornare a Lovadina.
Mi ricordo che quando siamo ritornati a Lovadina, era primavera. C'era un sole che me inorbiva i oci e me ricordo che ghi n'era altro che sassi e tera par a strada, tuti muci de sassi, case in tera...
Mio padre era già ritornato nel frattempo, perché avevamo un po' di terra davanti a casa e là si era fatto mettere la baracca. Una volta che era pronta la baracca mia mamma ha dovuto lasciare Torino... Pianti e sospiri, ma no ghe xe sta santi!. Mia mamma sarebbe stata più volentieri a Torino, perché i figli potevano finire la scuola, il figlio mutilato avrebbe trovato un lavoro ... invece a Lovadina ha dovuto andare nello stabilimento di Spresiano a lavorare [...]
Siamo ritornati a casa in treno, un viaggio molto meglio che all'andata. È venuto a prenderci il barba con una cavalla "roana" che gliel'avevano lasciata i militari e con una carrettina. Aveva avuto la cavalla perché nella sua casa c'era il comando militare (in località Barcador). La casa non era stata colpita e fino a non molto tempo fa c'era anche lo stemma del comando che vi aveva alloggiato. La casa è ancora in piedi, ma è stata rinnovata e lo stemma è stato cancellato.
Mi ricordo che quando siamo tornati, nei primi giorni, c'erano altro che macerie e sole. Una roba impossibile. 
Mia mamma quanti pianti, pòra creatura, su sta baraca. Con la stufa che fumava come il demonio ... e tanto poveri che non sapeva come fare ad andare avanti. Perché mio papà non lavorava, non prendeva niente ... e tanta miseria. 
Quanti pianti che ha fatto per essere ritornata a Lovadina!
Prima che riprendesse il lavoro mio papà ha dovuto aspettare tanto tempo. Andava a fare qualcosa dai contadini, che magari gli davano un po' di farina, un po' di latte, un po' di formaggio. Tanta miseria. I primi anni dopo la guerra è stata tanto dura.
Poi hanno riaperto le scuole e siamo andati a scuola, io e mio fratello più piccolo. Ma i primi tempi era proprio una desolazione, un paese distrutto. Tante case erano in piedi, ma era tanto danneggiato, tanto bombardato. Anche per la chiesa all'inizio c'era una baracca. Poi hanno riparato la chiesa.
Mio papà un po' alla volta è tornato a lavorare in stabilimento. 
A Torino invece si stava benissimo: mio padre lavorava; per mio fratello mutilato mia madre aveva fatto tutte le pratiche perché venisse assunto in qualche ufficio magari come usciere o portiere.
Ma mio padre e il fratello di mia madre hanno invece voluto ritornare a casa. Parché bisognava vegnér Lovadina. Per vedere quanti sassi erano andati in terra.
Noi bambini ci trovavamo bene a Fioccardo, con la gente del posto e anche con altri profughi. Vicino a noi c'era una famiglia da Asiago e un ragazzo dei loro era grande, e andava a legna con mia madre sui boschi e poi la portavano a casa e vendevano anche qualche fascina ai siori del posto. Quelli del paese stavano bene, non erano mica come noi ... e poi mia madre andava in un'osteria che era là vicino: 'ndava a far el mastel, a lavar e botiglie. Era un'osteria alla fermata del tram.
Mia madre, negli uffici, tutto quello che ha chiesto ha ottenuto, per lei e per mia zia.

[Un altro anziano del paese Bepi Matiuzzo, delle ferramenta di Lovadina, può raccontarle meglio].

Mia madre ritornata a Lovadina si è "trovata persa". Perché suo marito a Torino aveva un lavoro...
Mia madre è morta a 72 anni e mio padre a 75 (tre anni dopo). Erano entrambi del 1874.

lunedì 10 maggio 2010

Intervista ad Eugenio Tomasi

Nato il 23 novembre 1909 a Cismon del Grappa (VI).

Nastro 1999/2 - Lato B                        17 agosto 1999

Nel 1915 quando ha iniziato ad arrivare la truppa italiana, pernottavano qua, nelle tende, sulla terra vicino al fiume. Stavano qua qualche giorno e poi andavano avanti. In fondo, vicino alla stazione c'era il comando tappa e poi un pochi andavano ad Enego e un pochi andavano sul forte Leone.
Io sono un ex minatore, in Germania, in Francia, in Lussemburgo, in Belgio e poi in Africa con le centurie operaie, prima della guerra in Abissinia. Poi ho chiesto al maggiore del genio se potevo espatriare ... ho fatto un anno in Italia e poi son stato richiamato.
Ho preso un po' di silicosi, inoltre l'invalidità per i dolori reumatici, per l'umidità a lavorare a mille metri sotto terra, cinquecento, ottocento.
Mi ricordo l'offensiva di Caporetto del '17. Prima ho visto della truppa partire con i cannoni sui treni, poco distante di qua.
Con la ritirata abbiamo avuto ordine di evacuare e abbiamo fatto tre convogli. È venuto a darci l'ordine il maresciallo dei carabinieri del paese.
La nostra famiglia fino ad allora era rimasta sempre in casa e quella volta ci hanno detto che avremmo dovuto andarcene da casa per sei mesi: «Lasciate qua tutto». Mio padre era militare, richiamato carabiniere. Lo vedevo tante volte passare di qua che accompagnava tradotte fino a Primolano. Poi è stato riformato durante la guerra.
Siamo partiti io, la mamma, il papà, mio fratello più piccolo che era del '14 mentre una mia sorella era a Feltre con i nonni. Anche loro, della città di Feltre, hanno avuto ordine di evacuare, in parte, la città.
Per prima è partita mia nonna con le figlie – i figli erano in guerra – ma non sapevamo dove loro fossero andate; dopo l'abbiamo saputo. 
Mio nonno era guardiano della segheria a Feltre, in faccia alla stazione dove adesso hanno fabbricato. «Beh, beh, diceva, allora partirò domani». Invece domani sono arrivati gli ungheresi e ha dovuto rimanere là. Fortuna ha voluto che lo hanno messo ad accompagnare il cappellano militare austriaco - o ungherese che fosse stato - ed è rimasto con lui per tutto il periodo dell'occupazione. Mio nonno si chiamava Luigi Furlanetto, perché era di origine trevigiana.
Noi siamo andati con il primo convoglio [di profughi] a Caltanissetta. Il secondo è andato a Giarre e il terzo in altri paesi là della Sicilia: tutto il paese di Cismon è andato in Sicilia.
Poi mio padre è andato a lavorare in un campo d'aviazione a Parma e noi siamo andati con lui.
Ricordo a Caltanissetta di aver visto un tenente degli alpini del nostro paese, del battaglione Valbrenta, che poi sono stati su al Berretta. Lui si vede che aveva ottenuto due giorni di permesso, durante la ritirata. Si chiamava Peruzzo Vincenzo e poi ha fatto anche carriera; per un po' di giorni è venuto anche lui giù in licenza a Caltanissetta.
La partenza per Caltanissetta. Ci hanno detto che saremmo stati sei mesi a Rovigo. Invece ci abbiamo impiegato otto giorni solo per arrivare in Sicilia.
Da Caltanissetta siamo andati a Parma a raggiungere il papà e là siamo rimasti fino all'armistizio. A Parma vedevo arrivare tradotte cariche e stracariche di prigionieri austriaci, migliaia... 
Mio zio che era un po' «più avanti degli altri» ha chiesto di tornare nel paese, sei mesi dopo l'armistizio. E allora [...] siamo venuti su, io assieme a lui. 
Qua a Cismon le case erano distrutte. C'era materiale bellico dappertutto, bombe, granate inesplose, di tutto c'era.
La nostra casa era rotta, proprio in centro al paese. Mio padre era carabiniere. Prima aveva fatto due anni di alpino, poi è stato due anni in Germania poi è ritornato qua, non sapeva cosa fare e ha chiesto di ritornare militare, a Roma, dei carabinieri. È rimasto là e si è preso l'encomio solenne a Napoli.
Quando siamo partiti, da Cismon, in tre giorni hanno fatto tre tradotte. C'era il maresciallo, c'era il sindaco, c'era il parroco: erano tutti con noi (il sindaco non era scappato prima). 
Quando siamo tornati, la casa non c'era più; c'erano degli operai dal Bergamasco, dal Friuli che costruivano delle baracche. E finché non ci hanno dato la baracca siamo stati otto giorni dentro un carro merci in un binario morto della stazione di Cismon. Dopo, c'era l'asilo che era rimasto in piedi, l'hanno restaurato un po' e siamo andati sull'asilo finché hanno finito la baracca. 
La nostra famiglia era composta da me, mio padre carabiniere, mio fratello Giorgio e mia sorella Antonietta: cinque persone.
Siamo ritornati sei mesi dopo l'armistizio, nel mese di giugno del 1919. Prima di allora ci avevano detto di non tornare e poi [gli abitanti di Cismon] hanno cominciato a venire [a casa], venire sempre.
A Parma c'erano quelle migliaia di prigionieri austriaci che avevano preso sul Grappa. Io ero ragazzo e andavo a vederli, anche: avevano fame e gli davano da mangiare, gli davano da bere, e li hanno messi dove c'erano i giardini, in una parte e l'altra. Tanti, tanti prigionieri. Erano migliaia di prigionieri, decine di migliaia, perché qua in poche ore, quando hanno fatto l'offensiva i nostri, quelli del Pertica, sono passati direttamente sul ponte che c'era al Corlo, che non l'hanno fatto saltare e sono passati subito.
Questi prigionieri erano proprio in Parma città.
Le nostre truppe, passato il Corlo, sono arrivate fino a Fonzaso dove c'era il comando dell'armata austro-ungarica.
D. Da profugo, a 8 - 9 anni come si trovava a Caltanissetta?
R. C'era della brava gente, anzi c'era uno che era capo dei magazzini delle ferrovie, proprio di Caltanissetta, mi ha invitato tante volte a casa sua a mangiare. C'era di tutto, brava gente là [...]
Mi ricordo che non c'era acqua e si andava fuori in campagna con l'asino a prenderla e si trovava sempre delle pattuglie di carabinieri che andavano in cerca di disertori, c'erano tanti disertori, là.
A noi profughi, ci davano una lira e 25 al giorno.
D. E vi bastava?
R. Doveva bastare, non c'era altro. Mia mamma allora si adattava a fare un po' di tutto, faceva materassi... Poi a Parma mio padre lavorava sul campo d'aviazione.
Quando siamo ritornati qua a Cismon noi ragazzi si andava in giro in cerca di rottami di ferro, cartucce, per venderle, prendere qualche lira e tirare avanti la baracca. Il materiale lo vendevamo a un paio di commercianti qua, che erano autorizzati a raccogliere il materiale bellico.
Il viaggio per andar giù. Otto giorni ci abbiamo impiegato. Siamo arrivati a Rovigo, ma ci han messo in un binario morto per lasciar il posto alle tradotte dei soldati nostri che venivano su e andavano al fronte. Ci hanno lasciato in un binario morto, e poi via, e poi avanti a sbalzi. 
Quando siamo arrivati a Napoli, la Marina ci ha dato un piatto di riso, ecco ... quello ci hanno dato, per strada. È stato un viaggio piuttosto duretto, ma per noi ragazzi, andava, ancora.
Ci eravamo portati via un pacco, da tenere con le mani, e basta. Abbiamo lasciato tutto qua. Tutto, tutto. Al ritorno non abbiamo trovato più niente, niente. Neanche i muri della casa, neanche i muri.
D. E come avete fatto, dopo?
R. Mio papà ha cominciato a lavorare subito, alla ricostruzione del paese, a far case. Si mangiava quello che si aveva. Qualche volta ci davano qualche cosa che mandava l'America, ma ci si doveva arrangiare. Chi aveva mangiava e chi non ne aveva ... "subiàva" [fischiava].
D. Laggiù, come vi trattava la gente?
R. C'era della brava gente, là, i siciliani. C'era della brava gente. Ce n'era di quelli che se ne fregavano, che ci trattavano malamente, ma anche a Parma, non in Sicilia solo; ci chiamavano i profüga, i profughi in parmigiano.
D. Era quasi peggio a Parma che non a Caltanissetta...
R. Sì, sì. 
Noi ragazzi si cercava di arrangiarsi un pochettino. Là vicino a noi c'era una caserma di granatieri. Erano quasi tutti quelli che erano in convalescenza, e io andavo là tante volte. Si portava via della legna da loro e si andava a venderla. C'era un piccolo caffè che così ci dava qualche lira per la legna, sempre a Parma.
A Caltanissetta non c'era commercio.
Lo chiamavano il palazzo ferroviario, ma non era ancora proprio finito e ci hanno messo là dentro. Si era famiglie promiscue, in dieci quindici per camera,  "camerone" grandi. C'eravamo noi qua del paese, friulani...  Si era misti.
Per la scuola, in base alla legge che c'era allora, bisognava avere sei anni compiuti e io li compivo l'anno dopo, in novembre. Così ho iniziato ad andare un po' a scuola là, a Caltanissetta e, dopo, un poco a Parma. 
A scuola mi trattavano bene, mi davano anche da mangiare. Però si era figli di nessuno.
D. Nel complesso che ricordo ha di questo periodo da profugo?
R. Parlano dei profughi del Kossovo, ma noi siamo stati peggio di loro...
Dopo ci si arrangiava. Finita la guerra, si è tornati in paese, si lavorava, lavoro ce n'era, venivano a casa quelli del fronte che si congedavano un po' alla volta.
Nel 1924, a quattordici anni e mezzo, sono già emigrato in Francia, per lavorare. Mio padre era emigrato anche lui, già in Francia, dalle parti di Grenoble. Allora ero ragazzo, lavoravo fuori, da una parte e l'altra; subito dopo sono andato in un'acciaieria. Mi davano un franco francese all'ora perché non avevo i sedici anni. Per otto ore al giorno. Me ne volevano sei, di franchi, per mangiare; e alla domenica si lavorava. Era durissima, e la famiglia era a casa. 
Finché, tira e molla, cambiato lavoro, cambiato di qua, cambiato di là, dopo mi davano una paga come a un adulto: 1,60 franchi francesi all'ora. Poi ho continuato sempre con l'emigrazione.
D. Il ricordo che ha di questo periodo di profugo, se dovesse definirlo, come lo definirebbe?
R. Come i kossovari, come i kossovari! Anzi, loro sono stati trattati meglio, almeno da parte dell'Italia. Noi siamo stati buttati là, e via. E [per fortuna] che ci hanno dato la possibilità di sloggiare, perché qua c'erano gli ungheresi.
Interviene il nipote di EugenioRiguardo a quelli che sono rimasti sotto la dominazione austriaca ricorda che la nonna dell'intervistato è morta di fame. 
«E per fortuna non hanno violato le donne, perché hanno trovato degli ufficiali severi. La bisnonna era là con sei bambini e un soldato tedesco che ha provato fare il furbo si è preso un ceffone dal suo ufficiale. Poi però i civili sono stati allontanati dal paese e li hanno mandati verso Lentiai e là è stata dura. I bambini se la cavavano con la piccola questua».
Eugenio Tomasi. Il paese di Cismon era con le case senza tetto, senza muro, rase al suolo; dipende da dove avevano colpito le granate.
Qua gli austriaci avevano subito fatto dei lavori per mettere le teleferiche e portar su il materiale, partendo da Cismon e arrivando al Fenestron. C'erano due teleferiche che andavano lassù. Una partiva qua sotto, vicino a dove c'è l'imbocco della centrale elettrica e una partiva da Piovega, dove c'è il camping. Quella era più grande e andava un po' più su, e quella portava giù anche i feriti.
Quando siamo tornati noi c'era ancora tutto: c'erano le teleferiche e c'erano armi dappertutto. 
Molti e molti dei miei amici [sono stati] feriti e uccisi dai residuati bellici. Si toccava magari una spoletta, scoppiava, e tantissimi sono rimasti...
La partenza per la Sicilia
Nessuna resistenza, niente. Abbiamo fatto su un fagotto - due, tanto eravamo convinti che saremmo ritornati presto. «Non occorre neanche chiudere la porta», ci avevano detto.
Noi siamo tornati dopo un anno e mezzo, ma altri sono tornati anche dopo.
Hanno fatto le baracche in legno, eternit e mattoni. Era il Genio militare che sovrintendeva a queste compagnie che venivano da fuori. Ma anche gente del posto lavorava: tutti lavoravano, allora. In un paio d'anni Cismon è stata rifatta.

Congedandomi, il sig. Tommasi ripete il paragone con il Kossovo: «Sono stati trattati bene, benissimo loro, e noi altri invece come è capitato.»
Poi anche mia sorella più piccola, che era dell'11, è riuscita ad arrivare a Firenze...

mercoledì 5 maggio 2010

Brano di intervista ad Alfredo Menegazzo

Nato nel 1908 a Onigo di Pederobba (TV)

Nastro 1986/5 - Lato A       (da 09:07 su nastro originale)      20 gennaio 1986
              
Avevo dieci anni allora. Io sono andato profugo in Piemonte. Diciotto mesi siamo stati via la nostra famiglia, diciotto mesi.
Qua c'era la prima linea [italiana] e di là c'erano gli altri. Abitavamo drio a Piave [lungo il fiume Piave], di là della fabbrica. Tutto il paese qua siamo andati via, tutti i paesi. Abbiamo dovuto andar via altrimenti ti ammazzavano.
Mio padre era soldato, è venuto casa [?] e ha trovato un posto in Piemonte, a Incisa Belbo, in provincia di Alessandria. Si viveva col sussidio. Eravamo una famiglia grossa, si era in venticinque-ventisei. Erano quattro fratelli, tutti quanti con due tre figli ciascuno [...] eravamo in affitto delle Opere Pie di Pederobba.
[...]
A Incisa Belbo noi eravamo piccoli. Gli uomini erano soldati e con noi c'era il nonno, ma era vecchio. Le donne "guardavano" i bambini. Il comune ci ha trovato una casetta in affitto; io avevo dieci anni e gli altri miei fratelli (eravamo in quattro fratelli) erano più piccoli.
Al ritorno abbiamo trovato tuto un stròss. Casa buttata giù, senza niente. Ci ha dato una baracca il governo. Nessun rimborso di danni; a chi ne hanno dati e a chi niente. Non so cosa facesse il comune. Ci è toccato arrangiarsi, arrangiarsi meglio che si poteva ... impiantarsi nella terra, ancora... Allora non c'erano lavori, non c'erano mica le fabbriche che ci sono oggi, bisognava arrangiarsi sulla terra e vivere là.
Siamo tornati di autunno e abbiamo passato due inverni in baracca e dopo un po' di tempo hanno preparato le case. Il governo ha aiutato. La casa ... un pezzo era andata giù e un pezzo era rimasta in piedi, ma non era abitabile. Dappertutto, nei campi, c'erano residuati di guerra. Pericolo, più di uno ha perso anche le mani a prendere ... in casa nostra no. Noi se si trovava qualcosa nella terra si cercava di metterla fuori (in parte) e dopo venivano a portarla via i soldati; le si ammucchiava e poi venivano loro.
Si mangiava: il governo dava fuori il rancio, un pasto al giorno, lo si andava a prendere, in comune, e poi al forno ci hanno dato la tessera.

venerdì 30 aprile 2010

Intervista a Maria Fedato

Nata l'11 settembre 1908 a Falzè di Piave, TV.

Nastro 1994/30 - Lato A   [Sulla cassetta originale, da inizio a 23:19]             22 agosto 1994
Maria Fedato, Falzè di Piave  (Foto del 22.8.1994)
Ci hanno messo su una carretta e ci hanno portato a Sarmede.
Si sono presentati là col cavallo e con la carretta e poi hanno detto su, su, su. Siamo andati ... senza portarci via niente, come eravamo e poi quando eravamo laggiù a Sarmede si andava per le case.
01:10 Là tanti, quando ci vedevano, chiudevano le porte ... e allora noi da Sarmede si andava in giù, verso la pianura, ma anche là tante case, quando ci vedevano "studiavano" [si affrettavano] a chiudere le porte ... e tanti ci davano farina di sorgo rosso.
Un anno peregrino.
Noi abitavamo in Borgo Materasso, una località un po' discosta dal Piave, verso Pieve di Soligo.
Poi ho sposato uno che abitava lungo il Piave, dove avevano lanciato tutte le bombe. E là avevo un figlio che mentre giocava a calcio con dei ragazzi è andato verso il Piave ... ha visto che c'era un oggetto rotondo che lo incuriosiva, ha chiamato gli altri suoi amici a vedere e loro gli hanno detto:  
04:30 «No Joanin che a é na bonba». Ma lui ha insistito, è andato giù ed è saltato in aria. Morto sul colpo.
Mio marito era Breda Pietro, 1906. Ho avuto in tutto dieci figli, più uno morto.
Incidenti ne sono successi anche molti altri. A mio figlio è successo nel 1936. Era in località Breda-Mira, dopo il passo a barca di Falzè; e là di bombe ce ne sono ancora, sotterrate.
A Sarmede non ricordo con precisione il nome di chi ci ospitava ... era in una famiglia di contadini. 
Eravamo io, mia sorella Isa, mio padre Pietro, mia madre Regina Dal Tin, mio fratello Antonio. Siamo andati tutti con una carretta. Siamo partiti al mattino e al pomeriggio eravamo già là.
È stato mio padre a cercare questa famiglia.
09:33 Era una famiglia grande e ci ha messo sulle camere; ci ha trattato abbastanza bene. Solo che non c'era da mangiare, per questo "andavamo a carità"; anche mio papà e mia mamma.
In certe famiglie dove non potevano vedere i profughi ci davano sorgo, tanti invece ci davano magari una fetta di polenta.
Non andavo a scuola.
Quello che soprattutto mi ricordo è che si andava tanto in giro per trovare da mangiare.
Eravamo io (1908), mia sorella Isa, Antonio (del 1917), Vigilio (1906), Giovanni (che poi è andato a Milano), Pierina (del 13)...
La famiglia che ci ospitava era grande ... qualcosa, anche latte, quando c'era ce ne dava. 
13:34 Ma il ricordo principale è che andavo sempre in giro, in cerca di mangiare. Giù per le basse [verso la Bassa Friulana]; solo in un giorno però, mai stati via anche alla notte.
È tanto che mi piacerebbe ritornare su quei posti e trovare quelle persone che ci hanno ospitato! Non sono più ritornata su quei posti perché poi mi sono sposata e sono andata a stare in riva al Piave e là ho avuto 10 figli. 
14:44 Mi sono sposata nel 1936. Mio marito era contadino, "affittuale" di Collalto. Avevamo una bella stalla di vacche con una ventina di capi, più tre cavalli. Eravamo una famiglia abbastanza benestante tanto che tutto il paese di Falzè diceva: «Oh, varda i Bréda!». Il padrone Collalto veniva sempre, là da Breda...

Finita la guerra, quando siamo ritornati al Borgo Materasso la casa era parte in piedi e parte distrutta. Ci hanno dato la baracca.
17:48 Qua a Falzè della classe 1908 siamo ancora in 5 (tre maschi e due femmine) ... la campagna era abbastanza a posto [...]
Materasso si trova nella strada sopra a Chiesuola.
20:08 La bomba che ha ucciso mio figlio era dentro all'acqua del Piave, o meglio dentro un rivoletto, sull'alveo del Piave...
Quel luogo là era conosciuto come la Croda di Breda Mira, e noi si andava giù a lavare la biancheria con il bigòl e due cesti sulle spalle. Anche quando veniva giù forte l'acqua del Piave la croda rimaneva là. 
21:25 E c'è ancora; si trova più avanti [a monte] del passo a barca, bisogna passare il borgo di Cao de Villa.
Nel complesso, da profughi, molti ci trattavano bene e molti male. 
Noi si aveva altro che il pensiero di andare a trovare il mangiare...

Nastro 1994/29 - Lato B   [Sulla cassetta originale: dall'inizio a 01:53]       Aggiunte e precisazioni, 15 settembre 1994

23:41 [Quando andavamo a carità] ce n'erano di quelli che offrivano qualcosa e ce n'erano altri invece che chiudevano le porte; ed erano tanti questi, non tutti, ma insomma...
Tutti i miei parenti, malgrado tutto, sono ritornati. Nessuno è morto o si è ammalato.

martedì 20 aprile 2010

Intervista a Giovanni Dell'Agnolo

Intervista effettuata il 17 agosto 1999 in Valsugana orientale nel corso di una ricognizione alla ricerca del vecchio confine fra il regno italiano e l'impero austro-ungarico.


Giovanni Dell'Agnolo, nato nel 1933 a Martincelli (Grigno, TN)


Nastro 1992/2 - lato B


Il vecchio confine sarebbe stata un'osteria... adesso non si vede più niente...
D. Ma non è rimasto neanche un cippo?
R. Ce n'è uno, se lo vuol vedere, deve andare vicino al depuratore, a Pianello, Pianello di Sotto per la precisione, verso la ferrovia e il Brenta; poi ce ne sarebbe un altro nell'orto di mio cugino.
Le montagne che sono qui sopra, sono di Cima Campo, quella con il forte,  mentre oltre il Brenta c'è il forte Isser [Lisser].
Durante la prima guerra mondiale gli abitanti di Martincelli sono stati tutti a Napoli, e quando sono tornati a casa vedevano sopra di loro le stelle, perché non c'era né tetto né niente, come quelli del Kossóvo adesso. I muri però erano in piedi. Le campagne erano piene di baracche, bombe e roba di guerra, e basta. Questo me lo diceva mio papà, Dell'Agnolo Giovanni, che aveva lo stesso nome mio.
Italiani, ciapài col s'ciòpo, così ci consideravamo noi, dopo la prima guerra.
I gendarmi, appena finita la guerra chiedevano ai nostri vecchi: «Allora come state? State meglio adesso o sotto l'Austria» e loro dicevano: «Ma sotto l'Austria, sacramento!»

     Mi ripete una canzone che aveva sentito dai suoi.

     E' morto o general Cavaglia
     per conquistar u Trentina, tutto sassa...

D. Ma tanto bene stavate sotto l'Austria ... e poi vi toccava lo stesso emigrare?
R. Ma, forse c'era più disciplina. Dicevano che c'era un gendarme a Borgo e che lui da solo sorvegliava tutta la Valsugana. Uno solo. Adesso invece ad ogni paese c'è una caserma, e ancora...

Vado a fotografare il cippo di confine. Si trova giusto di fronte al cancello d'ingresso del depuratore di Pianello di Sotto.

*** 
Cippo di confine Austria-Italia a Pianello TN - Lato Impero d'Austria
Sopra: 17.8.1999 - Sotto: 31.3.2012



***






 Cippo di confine Italia-Austria a Pianello TN - Lato Regno d'Italia
Sopra: 17.8.1999 - Sotto: 31.3.2012





Per individuare il contesto in cui il Termine confinario si trova, vedi
http://www.youtube.com/watch?v=jvTOlZ2tikI




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