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giovedì 13 maggio 2010

Emilio Dal Mas, Comugne di Pramaggiore (VE)

Nato il 5 dicembre 1912

[Intervista registrata presso il bar centrale della località Pradipozzo di Portogruaro]

Nastro 1998/13 - Lato A                 21 maggio 1998

Ricordo come gli austriaci facevano la punizione [Binder] ai loro soldati. Binder vorrebbe dire appendere. Legavano un soldato per i piedi e lo tiravano su e quando a loro sembrava il momento opportuno mollavano la corda e lui cadeva a terra che pareva quasi morto. Ma gli buttavano addosso un secchio di acqua sul viso e allora un po' alla volta, gorgogliando [fa il verso], il soldato rinveniva. Veniva appeso con la testa in giù e quando diventava ben nero, brutto... Ne hanno fatte chissà quante di queste punizioni! 
Io sentivo che parlavano tutti una lingua sola, il tedesco, anche se erano delle varie nazionalità.
Nostro padre andava con le vacche e un carro a portare le ramaglie fino a San Stino, e da S. Stino altri andavano fino al Piave. Era quando gli austro-ungarici si preparavano per fare l'offensiva, che poi l'hanno fatta [battaglia del Solstizio]. I nostri lavoravano "comandati", per i tedeschi.
Poi ricordo che avevamo anche i profughi provenienti da vicino, dal Piave. Venivano nelle nostre case e non c'era neanche posto per loro, perché noi eravamo cinque fratelli (di cui tre sorelle) più due genitori. Avevamo una stanza da cinque per quattro, e là si metteva il vino, la biava, non ricordo se ci fossero anche le galline. C'era un'altra stanza con la nonna e sua figlia ... e tutta la notte la vecchia gridava perché i militari volevano prendersi la figlia di 19 anni. Si chiamava Emilia ed era mia zia che poi è emigrata in Argentina, dove è morta. Ma non le hanno mai fatto niente perché avevano una disciplina enorme.
Alla mattina andavano a fare le istruzioni e avevano delle bombe a mano che non erano come le nostre piccole e tonde: avevano un manico di legno e andavano sulla "Bandida di Zacchi". Erano un 2-300 ettari di prato incolto, con cespugli, spine e varie irregolarità del terreno, buche ... in territorio di Cinto Caomaggiore. I manici delle bombe a mano, lunghi circa 25 cm, se li facevano loro, i soldati. Tagliavano i legni che allora ce n'era una quantità e poi con un coltellaccio ognuno si faceva la sua scorta. Il legno era generalmente di olmo, non so perché ma prendevano sempre l'olmo.
I profughi che c'erano in paese provenivano dai paesi del Piave, non ricordo quali; mi ricordo invece i loro cognomi, perché c'erano i Casonato, i Polon. Provenivano da Noventa di Piave. Mi ricordo che non andavano d'accordo fra di loro, si bastonavano, perché andavano a prendere questa carne, questa cosa che gli davano al comando, e se andavano i Polon si tenevano il pezzo più grosso o almeno così li accusavano di fare i Casonato. Io non so di preciso, so che per questo motivo se le davano di santa ragione. 
Erano quelle due famiglie che abitavano da noi, e noi avevamo fatto posto poiché avevamo due stanze. Il comando tedesco ci ha detto che ce ne bastava una e nell'altra stanza abbiamo messo i profughi. O meglio, la nostra casa aveva sei stanze e tre appartenevano a mia nonna e tre a noi. Con l'arrivo dei profughi noi siamo rimasti con una stanza da 5 x 4. La nonna ha avuto un'altra stanza. Ai profughi è stata data una stanza per famiglia e nelle altre due stanze c'erano i soldati.
I profughi erano "in stretto" e facevano baruffa per il mangiare. Eh ciò, era fame, quella volta! [...]
Mio padre l'avevano portato a Lubiana, assieme a tutti gli uomini validi del paese, anche se lui sarebbe stato invalido, a causa dell'otite. Ma i topi gli avevano rosicchiato il documento che testimoniava la sua invalidità e che lui teneva in camera. Mio padre si chiamava Giorgio, classe 1883. Sarebbe stato da "schioppo", ma siccome aveva avuto l'otite era riuscito a stare a casa. A Lubiana, lui e tutti gli uomini anche qua di Pradipozzo, Pramaggiore, che avevano sui 50 anni, sono stati portati via, fatti camminare fino a Lubiana, senza mangiare. Era un pezzo d'uomo come me e quando è ritornato a casa pesava 28 chili. Solo camminare e niente mangiare.
D. Ma cosa faceva a Lubiana?
R. Niente! Niente!
D. E perché l'hanno portato a Lubiana?
R. Eh sarebbe un discorso quello là... Erano ordini così, di andar via. Poi sono ritornati a casa. Qualcuno è morto, lui invece era un uomo forte.
Mia mamma aveva salvato un sacchetto di biava, l'aveva nascosto sotto il tetto dello stalót della maiala. Faceva bollire questa biava, questo granoturco, e contava i granelli da dare a ciascuno di noi. A mio fratello che era più vecchio dava qualche granello di più, e noi a dirle, piangendo «perché lui è più vecchio gliene dai di più!» Erano granelli di granoturco lessati, senza nient'altro. Boia cane, se andava avanti ancora un altro po'!
Loro [i tedeschi] erano morti di fame! 
Sa i tedeschi, la guerra l'hanno persa per quello, mica per i cannoni degli italiani, l'hanno persa perché erano morti di fame!
Non sente anche la canzone, cosa dice: 
«Ritornò il nemico, per la gloria e per la fame, vogliam fermare tutte le sue brame»

È la La leggenda del Piave. Originale: 
«E ritornò il nemico per l'orgoglio e per la fame /
volea sfogare tutte le sue brame» ...

Glielo dico io che loro non avevano niente, niente, niente, e niente!
Perfino [successe che] uno, le dico, andava a prendere su fagioli nel campo di Tita Sottil. Questo austriaco andava a prendere i fagioli seminati in mezzo al campo di mais, che poi li avrebbe lessati e Tita con la zappa gli ha dato un colpo forte in testa e l'ha ammazzato. E l'ha seppellito sotto le foglie, là. Nessuno se n'è accorto, tutti hanno taciuto... Ai tedeschi mancava quest'uomo, ma non hanno sospettato della gente del posto di Tita Sottil, Tita Màt lo si chiamava dopo, perché non sono cose da fare. Eh, quella sì me la ricordo proprio!
Comungne non era un paese, allora, e neppure adesso. Il paese era Pramaggiore,  il prete era a Pramaggiore dove hanno portato via anche le campane. [I tedeschi] hanno buttato giù le campane, ma il prete è rimasto in parrocchia.

Nastro 1998/13 - Lato B

Degli italiani che si ritiravano mi ricordo che erano con questi carri (barocci li chiamiamo) a due ruote, con un mulo che tirava e portavano avanti quello che portavano.
Ma nelle campagne del Veneto, qua, c'erano 14.000 disertori. Gli italiani erano quasi tutti disertori quella volta. Rimasti di qua, e dopo andavano per le case; dopo Caporetto s'intende. Quella volta, invece di seguire e andare al Piave a far la difesa si sono buttati di qua e di là e dopo erano per le famiglie. Il prete ha pensato di sistemarne una buona parte, e dopo la guerra c'è stata l'amnistia.

Interviene un avventore più giovane che dice che i fascisti poi diedero la caccia a questi disertori e anche Tita Sottil era fascista... 


Ma, ribadisce Dal Mas, questo è avvenuto dopo la guerra. I fascisti hanno iniziato nel '19-20. Quei lazzaroni erano disposti a tutto, perché, con cosa hanno formato il partito fascista? Con i peggiori arditi che c'erano. Fioi, tuti fioi. (Ragazzi, tutti ragazzi).
Di questi disertori, il prete di Pramaggiore ne metteva uno in ogni famiglia. C'era uno di Taranto da Pastorel, che ha sposato la Maria, mentre quello che era da Stefani proveniva da Ancona, e poi ha sposato... Quelli sì me li ricordo, i nomi me li ricordo di questi soldati, ma non i cognomi. Giovannin si chiamava quello che era da Stefani e Cataldo era quello da Pastorel, perché lo hanno tenuto loro anche dopo finita la guerra, perché ha sposato una loro figlia.
I tedeschi non si sono accorti di questi disertori, perché rimanevano nascosti.
I tedeschi non andavano mica a far perquisizioni per cercarli, perché neanche non gli interessava, perché non c'erano tutti questi partigiani come è stato questa volta qua [nella Seconda guerra mondiale]; loro stavano nascosti.

Interviene un altro avventore del bar. E quella volta che i tedeschi hanno fucilato vicino al cimitero i quattro loro soldati? Durante la ritirata dei nostri soldati nel '17, li hanno fucilati poco lontano [da Pradipozzo]. Erano andati, praticamente, nella famiglia dei Martini... Me le raccontava mia nonna, a me queste cose. Sono andati là, erano ubriachi, hanno bevuto vino e dopo hanno appeso la vecchia con le gambe sulla catena del camino. Allora il comando tedesco li ha fucilati, in località Campo Manin. Appena lei va sulla strada grande ... non quella casa nuova, quella più avanti, più vecchia; là, proprio là. C'era questo pezzettino di terra e lo chiamavano il Campo Manin: erano i conti Manin che comandavano. Là hanno fucilato questi quattro soldati austriaci, che erano di stanza a Pradipozzo e per un po' sono rimasti dei blocchi di cemento. Mi ricordo quando andavo in cimitero,  dei "blocchi" a ricordo di questi quattro soldati tedeschi fucilati dai tedeschi stessi, nel cimitero di Pradipozzo. Non so se ci siano ancora, dovrebbero esserci ancora perché erano robe di guerra... Il prete, qualche anno fa, ha rinnovato il cimitero e non so se li ha levati. Io non ho più guardato. Ma prima c'erano questi quattro blocchi, entrando, sulla destra, in fondo al cimitero di Pradipozzo, c'erano queste quattro pietre. E mio cognato mi raccontava sempre, lui più o meno era del '6, se ne ricordava bene, li aveva visti fucilare. Poi lui era ragazzo e mi mostrava sempre il coltello che (assieme ad altri ragazzi del posto) aveva preso dallo zaino di questi soldati; e lo portava sempre con sè, questo coltello.
La località Campo Manin si trova partendo da Pradipozzo in direzione di Blessaglia, sulla strada principale.
Ma ci sono tanti episodi che mia povera nonna mi raccontava. Quando le hanno portato via la [polenta] ... che stavano facendo la polenta e sono entrati dentro gli ungheresi, perché la più parte quelli che erano cattivi erano gli ungheresi.

Riprende a parlare Dal Mas. Io so dei Minuzz di Blessaglia. Quella volta sulla ritirata si sono presentati a Blessaglia vestiti da capitano, e gli italiani li hanno ammazzati.
I Minuzz avevano la trattoria, il bar a Blessaglia. Erano militari sul Carso, e quando c'è stato la rotta di Caporetto, erano due fratelli, non so dove siano andati a prendere queste divise. 
Si presentano a casa vestiti da ufficiali, da capitano, da tenente, non so: sono stati arrestati dagli italiani e subito fucilati. Dagli italiani. Loro camminavano dove volevano, perché erano vestiti da ufficiali, e allora come adesso per gli ufficiali c'era rispetto, nessuno li fermava chiedendogli «tu dove vai, tu dove vai». Andavano dove volevano e li hanno presi a casa. Ci sono state delle spie ... quella volta era come adesso, anche adesso qualcuno avrebbe fatto così.
Mi ricordo quando sono andati via. Mio padre aveva un poche di viti, cento duecento viti di uva fragola che veniva anche senza solfato. Aveva fatto un 4-5 ettolitri di vino che aveva messo sempre nella stanza in cui si dormiva e dove c'era di tutto, formaggio ... e topi in quantità (avevano mangiato la carta di mio padre), e pulci ce n'erano a chili. Quella notte che sono andati via, c'era la cavalleria là da noi. Hanno sellato i cavalli, si sono preparati e dopo hanno riempito le borracce di vino. Ma non l'hanno mica preso tutto, perché se erano cinque ettolitri ce ne volevano di borracce! Una borraccia teneva non so, sui due litri, così... e sono andati via e hanno lasciato aperto il candolín, il tappo sotto. Era quando sono andati al Piave... [non è chiaro se si riferisca a italiani o a tedeschi].

Altro avventore. Quella volta, sempre nella ritirata, i tedeschi avevano la cassaforte del comando qua da Stival, da Bettiol. Quando sono andati al Piave, non sono più tornati indietro e questo Stival con la cassaforte si è fatto milionario. Perché prima era uno che andava a vendere meloni con il musso, qua a Belfiore.
Dal Mas. Non è così. La cassaforte sì che c'era, ma sul treno che loro hanno assaltato, carico di sigarette ... che hanno messo il tronco sulla ferrovia. Era Stival, quello che ha fatto quei lavori là.
Avventore. No, quello era Donadon, suo padre del prete Donadon, che era lui dei ferrovieri, quello che ha fatto quella cosa là. Dopo è stato condannato, questo Donadon, ma quello è un altro episodio. Quello che dico io invece è quando le truppe sono andate al Piave, e hanno lasciato qua la cassaforte e poi non sono più tornate indietro. Quella volta là, Stival si è tenuto la cassaforte. Questa è una voce, ma la sanno tutti, qua.
Dal Mas. Ma cosa vuole che avessero i tedeschi nella cassaforte; avevano solo la cragna [lo sporco, la miseria]. Non avevano niente!
Dal Mas all'avventore. Conosceva Momi Sec, che era anche postino? Anche lui diceva che quando si era affondata la nave era riuscito a mettere le mani sui soldi della cassaforte. Ma dopo si è venuto a sapere. Una volta mettevano i soldi nel paion [pagliericcio di granoturco], e si è saputo che da là lui prendeva i soldi, non da altre parti, erano soldi di famiglia... 
Avventore. Don Puppin, prete vecchio di Pradipozzo [o Pramaggiore] si diceva che era collaboratore dei tedeschi, e alla fine della guerra sono venuti gli arditi e la nonna mi diceva che chiedevano a tutti cosa e come. Gli arditi avrebbero fucilato subito il prete, ma hanno trovato che era in chiesa con moltissime casse da morto, perché era scoppiata la spagnola. Si è salvato per quello, altrimenti lo avrebbero fucilato immediatamente.
Dal Mas. Proprio durante la disfatta austriaca ... a Pramaggiore, Lubiato Riccardo, padre di G., che faceva anche il postino, tre austriaci ha ammazzato lui, là a Pramaggiore. Erano disarmati, e loro speravano di andare a casa, come è capitato a me e a tanti altri [dopo l'8 Settembre]. La gente ha cominciato a dire che mi hanno portato via quello, mi hanno fatto quell'altro, e hanno fatto sì ... per quello l'hanno fatto. Ma occorreva ammazzarli? ...
Avventore. Li ha ammazzati davanti alla chiesa di Pramaggiore. La povera mamma me lo raccontava sempre. Li ha ammazzati con il fucile ... ma non li ha ammazzati lui direttamente. Lui ha fatto la spia, ha detto agli italiani che venivano avanti: «Guarda che là dietro ci sono dei tedeschi» e li hanno ammazzati dietro alla chiesa dove c'è la cantina di [?].
Dal Mas. Io invece ho sempre saputo che non "li ha fatti ammazzare", ma che "lui li ha ammazzati".
Avventore. A me, mia mamma e mio nonno mi hanno sempre detto che lui ha detto agli italiani: «Guarda che là dietro alla chiesa ci sono due tedeschi!»

Il gestore del bar. Ha detto mia nonna che stava facendo la polenta, nella sua casetta. Mia nonna era "peverina", era grande così ma era terribile. Lei era là sul foghèr, entra il tedesco, le prende la calièra e ... parti. Mia nonna, Rosa Gorgato, classe 1850, si è messa a corrergli dietro con la forca, ma non è riuscita a prenderlo. È morta a 95 anni nel 1945.
Dal Mas. Sul cimitero di Pramaggiore c'erano 8-10 tombe di soldati, tedeschi, sì. Perché c'era il campo di aviazione. 
Una volta ho visto una battaglia fra due aerei italiani e uno tedesco. Il tedesco è stato abbattuto ed è caduto là, sulla riva di un fosso e si è bruciato tutto. Quella volta non avevano il paracadute e uno si è buttato fuori ed è rimasto sulla strada, morto; un altro è rimasto bruciato dentro. Sarà stato a un cinquecento metri da casa nostra. Io sono andato a vedere, siamo andati tutti a vedere. Il relitto si è bruciato tutto. Poi i tedeschi hanno preso il morto che era sulla strada e l'hanno portato in cimitero e di quello bruciato non so cosa ne abbiano fatto.
I preti sono stati poi accusati di essere collaboratori dei tedeschi e forse non lo erano. Perché ad esempio quello di Summaga, don Pietro Mazzon... 
Gli austriaci hanno detto che tutti quanti gli sbandati che erano sotto una determinata età dovevano presentarsi in un dato posto. Porca puttana, fra questi c'era anche uno zio di mio papà che si chiamava Birulin, il quale poi ... avrebbe ammazzato il prete, perché diceva che era stata colpa sua ... e non l'ha più guardato. Era successo come con mio papà, solo che mio papà era [stato internato] a Lubiana, e gli altri li hanno portati da un'altra parte, là sull'interno. A non far niente.
Come adesso in questa guerra qua [seconda guerra mondiale]. Io ho lavorato in cantiere a Monfalcone per 30 anni e se si presentava uno, zac lo buttavano subito dentro a lavorare, i tedeschi. C'erano 14.000 operai. Li mettevano anche perché in questa maniera li controllavano. Vanno a lavorare e così non sono in giro con la pistola...
Al tempo della Prima guerra invece ero contadino. Mio padre aveva poca roba, un tre ettari di terra, si vivacchiava. Mentre adesso vicino a noi c'è uno che ha venti campi [campi veneziani, tre campi = un ettaro]. È lui da da solo, perché non si è neanche sposato, ha una trentina di vacche, vende il latte, ha la pensione ... ed è pieno di debiti! Una volta in un ettaro viveva una famiglia. So che ha debiti perché conosco chi avanza soldi da lui.

Ultimi giorni di guerra
Anche i tedeschi hanno buttato via il fucile, per le strade, di qua e di là. Dopo, mentre passavano ritirandosi, sono anche venuti a salutarci, due tre di quelli che erano stati un anno a casa nostra, quelli che si allenavano con le bombe; in particolare uno che non era neanche austriaco, mi sembra che fosse stato croato e che si era affezionato a me. C'erano anche due o tre ufficiali.
Poi sono arrivati gli italiani, che li hanno fermati e per prima cosa gli hanno preso l'orologio e dopo hanno guardato se avevano soldi e dopo li hanno portati via e non so cosa gli abbiano fatto.
Era il bottino! Così hanno fatto anche loro [i tedeschi] quando gli italiani dopo l'8 Settembre hanno capitolato. Noi abbiamo tenuto duro per 17 giorni, mi ricordo. Io ero sull'isola d'Elba; dopo loro avevano gli apparecchi e i nostri si sono arresi.
Anch'io sono stato in Germania, 22 mesi a Monaco di Baviera sotto i bombardamenti. C'erano gli apparecchi americani di giorno, e quelli inglesi di notte. Monaco era una città che adesso e tornata forse anche meglio di prima, industriale. Hanno spaccato tutto. I tedeschi avevano provato a portare le industrie ... le officine a portarle nei boschi perché avevano tanta boscaglia. Ma non combinavano niente. Dovevano perderla quella guerra, dovevano cessarla prima, e senza far tutti quei morti ancora.

Io ero prigioniero a Monaco. Ho sposato una di Sesto al Reghena e ho lavorato a Monfalcone dopo e prima della guerra, per 37 anni.
Più 7 di militare.

martedì 11 maggio 2010

Intervista a Maria Todoverto Pasquale

Nata il 4 agosto 1899 a San Vito di Valdobbiadene (TV).

È presente il figlio.

Nastro 1994/32 - Lato A                        24 agosto 1994

Siamo arrivati a Vittorio Veneto io, mia mamma, mio fratello, altri due bambini e una vecchiotta, e una volta arrivati a Vittorio non si sapeva più da che parte andare. Allora abbiamo preso la strada diretta che va verso Ponte nelle Alpi, su per San Floriano. A San Floriano c'era un albergo vuoto, con però dentro dei prigionieri russi, e di fronte c'erano delle case. 
Là siamo rimasti un pochettino. C'era la canonica e il parroco ci ha indicato la casa dei sagrestani, che ci hanno fatto un pochino di caffè, alla buona di Dio, ma insomma abbiamo mangiato qualcosa. 
Dopo non si sapeva dove andare e ci siamo portati in una casa sotto la montagna, sulla riva, da una famiglia di contadini benestanti, che avevano anche un terreno a San Giacomo e che avevano una stanza nel retro della casa. Vi abbiamo messo un po' di fieno per terra, ci siamo sistemati meglio che abbiamo potuto e siamo sempre stati là. Abbiamo lavorato con loro.
Poi siamo andati a lavorare per i tedeschi quando hanno messo il lavoro sulla strada da San Floriano a Nove. Si lavorava dalla mattina alle otto fino a mezzogiorno. A mezzogiorno ci davano un po' d'acqua con quello che capitava dentro ... e dopo si tornava a lavorare fino alla sera, quando si ritornava in questa casa.
I padroni avevano anche una bestia nascosta ... e per fortuna non muggiva mai! Così si riusciva ad avere un goccio di latte. C'erano anche dei bambini, ce n'erano quattro di loro.
Insomma tra i contadini e tra andare sulla strada, siamo andati avanti.
A volte si andava anche verso Vittorio per vedere cosa si poteva fare, ma visto che non c'era di meglio siamo stati là fino alla fine della guerra.
Per trovare da mangiare, in quattro ragazze con un carrettino si andava «a carità verso la bassa», nei paesi di pianura dove c'era la campagna. Passando per i campi di erba medica si raccoglievano i radicchi [tarassaco], e Dio ce ne liberi perché li abbiamo mangiati tutti crudi; così com'erano li si mangiava. Per dormire, quando si era fuori anche la notte, si andava in qualche casa, o in qualche fienile. Chiedevamo se ci lasciavano andar dormire e ci lasciavano andar dormire sul fieno. Alla mattina ci si alzava, si partiva e si camminava ancora e poi si tornava a casa con un sacchettino, con una branca di farina con qualcosa che si trovava par carità [elemosinando].
Ma quando si era per la strada bisognava stare attenti perché gli altri ci portavano via [il mangiare], i tedeschi. I militari stessi ci portavano via il sacco, lo portavano al comando e noi si doveva andare a casa senza niente. Bisognava fare tutti i nascondigli che si poteva fare. 
Giù nella bassa c'erano le famiglie grosse - con anche quattro cinque matrimoni all'interno della stessa casa - e c'era sempre qualche donna più buona delle altre che ci dava qualche branca di farina, na ciopéta de pan, qualcosa per i figli, così...
Si aveva sempre qualcosa da poter portare a casa; solo che bisognava stare attenti che non ce la portassero via.
Andavamo a carità soprattutto noi quattro-cinque ragazze, tutte giovani dai 18 ai 22 anni; mia mamma stava a casa con i figli. Poi se n'è aggiunta un'altra che era partita dalla Francia e si era trovata là in mezzo, con noi. Lei era più anziana di noi, e aveva girato il mondo. Ci indicava ... si va da questa parte o da quest'altra.
Mio padre era soprannominato Pasquale ed è morto prigioniero in Austria. Era stato fatto prigioniero da civile a Vittorio Veneto, lo hanno portato [internato] in Austria. Erano in sette italiani, portati tutti sette in ospedale, sono morti tutti di febbre spagnola nel giro di una settimana...
Siamo partiti da San Vito alla mattina verso le 11 quando erano iniziate le bombe italiane e non si poteva più stare in paese. Il nostro parroco Don Giovanni Tura ci ha portati su per le montagne, perché per altre parti non si poteva passare e siamo andati "su per le prese" e sulla montagna sopra Valdobbiadene e abbiamo incontrato su per la montagna anche quelli di San Piero (S. Pietro di Barbozza). Eravamo tutti su per la montagna, e dopo si è presa la strada che andava diretta a Vittorio Veneto. I più giovani erano andati verso la pianura perché dicevano che si poteva far qualcosa di più... 
E darsi da fare sempre per mangiare, perché non c'era niente...

Interviene il figlio
A San Vito [di Valdobbiadene] tutto il paese è andato su per la montagna ... su per Sanguarda; poi hanno attraversato la montagna verso San Piero e Santo Stefano e poi sempre a mezza costa sono andati a Miane, sempre seguendo i sentieri. E da Miane a Vittorio Veneto.
ll parroco attuale di San Vito ha fatto dei libri che hanno tutta questa storia.
Quando poi sono ritornati ... qua c'è la villa Barbon, dove c'era il comando degli italiani che passavano agli abitanti ritornati un piatto di minestra.
E dormire dove? Che le case erano tutte a terra! Hanno trovato qualche grossa botte, aperta sul fondo e là si sono ritirati per qualche notte. 

Tutto il paese era su per la montagna, tutti.
Quelli che potevano camminare camminavano e gli altri (che stavano male o che erano troppo vecchi o bambini) venivano portati a spalle; qualche vecchiotto era accompagnato per braccio. 
Senza portarsi via niente, lasciando a casa tutto, solo con la roba che si aveva addosso e una coperta. Né vacche, né altri animali...
La prima notte l'abbiamo passata a Follina, sulla fabbrica in cui non so cosa facessero. Là sul pavimento, senza niente. I contadini del posto ci hanno portato su un poche di canne di granoturco in maniera di non essere proprio a contatto con il pavimento, e là abbiamo dormito due notti.
Dopo siamo partiti e siamo andati a Vittorio Veneto e a Vittorio ci siamo dispersi una famiglia di qua un'altra di là, perché c'erano delle case vuote, quelle della popolazione che era scappata prima, che aveva fatto in tempo a scappare. Ci siamo sistemati, si lavorava per i tedeschi e loro ti passavano questa scodella di acqua.

Il lavoro consisteva nel ripristinare le strade [figlio].

Noi eravamo ragazze di 18 anni e sedute per terra ci portavano dei sassi grossi e con i martelli li spaccavamo per fare la ghiaia da buttare sulla strada. Perché era la strada che andava a Ponte nelle Alpi. Era sempre rotta e noi si era sempre in un angolo a battere questi sassi e farne tutte schegge così, come ghiaia: si faceva le "stradine", in quella maniera. Più che fatica, era fame! Perché a battere sul sasso col martello e non avere niente dentro... 
Per fortuna che poi abbiamo avuto fortuna. Sono arrivati i prigionieri italiani, che passavano su dei camion ... e sui camion loro avevano sempre qualcosa di nascosto. Salendo per questa strada ci vedevano noi giovani ragazze e c'era sempre qualcuno che ci lanciava qualche ciòpa de pan [pagnotta], sempre cercando di non farsi vedere dai tedeschi. «Ciàpa, ciàpa». Si mangiava per quello, perché c'erano i prigionieri nostri che cercavano di rubare per darcene...
I russi invece erano prigionieri come noi, fermi sempre là in quell'albergo. Senza niente, stavano là, anche loro come noi. Si facevano da mangiare tra di loro, quello che potevano, perché ... che non ne avevano! Non ne avevano da mangiare! Acqua, acqua, e qualche volta una pagnotta. E se qualche volta i tedeschi riuscivano a procurargli qualche po' di fagioli, i russi poi li cucinavano.
Noi ragazze non siamo mai state "tormentate" dai tedeschi e sì che là eravamo tutte giovani.

Nastro 1994/32 - Lato B

Ringrazio Dio di essere ancora qua; sono cattolica, e basta. Ma per mettermi in mostra no! [Non vuole essere fotografata se non dopo molte insitenze].
Mi ricordo ancora che quando si andava in giro par carità a volte capitava di essere messe in prigione. Chiuse in una stanza lungo la strada. Quando ci prendevano con un sacco ci portavano via il sacco e ci chiudevano in una stanza e ci lasciavano là, magari una settimana, con un po' di acqua o di quello che mangiavano i militari. Poi quando ci lasciavano liberi allora si correva per la campagna di quant'anima, per poter scappare...
Vecchi o giovani, quando si poteva camminare, bisognava camminare. E quando si andava giù per la bassa, il pantano era fin quassù (a metà gamba), per le strade.
Alla sera quando si andava a chiedere aiuto per dormire e si dormiva sul fieno, allora col fieno ci si puliva dal pantano. Non si aveva né acqua né niente, e col fieno ci si puliva, si tirava via tutta la terra gialla che c'era giù di là, tutta questa 'palta' che si era attaccata alle gambe.
E camminare scalzi. Non si aveva niente per i piedi. Chi aveva uno straccio di ciabatta o uno zoccoletto di legno come c'era una volta, tirava avanti; ma scarpe nessuno le aveva. Senza scarpe.
Quando siamo partiti da San Vito, mio padre non c'era - era prigioniero - o meglio era a lavorare per i militari. Prima dell'invasione era venuto a casa; quando siamo partiti da qua siamo andati insieme a Vittorio. C'era mia mamma Emilia Battistetti, mio papà Pasquale, mio fratello Silverio e io ... e poi c'era tutto il paese.
Al ritorno a S. Vito la prima notte abbiamo dormito dentro a una botte, sulla via Carobb [...]. C'erano delle grosse botti di vino lungo la strada, ma senza fondo, e si poteva entrarvi. Ci siamo entrate io, mia mamma, mio fratello e altri due assieme. Almeno se piove non ci bagniamo, ci siamo detti, e ci siamo rimasti a dormire per due - tre notti nelle botti.
Nel frattempo avevamo iniziato a lavorare noi, a metter a posto un po' - meglio che si poteva - la casa. Recuperare quello che si poteva. La casa era senza coperto, ma i muri erano in piedi. Non c'era niente per ripararsi, c'erano però delle tavole.
Tutto il paese era rovinato, ma giù per la Cal Fontana invece sembrava un giardino ... è una strada che dal paese va giù verso il Piave. La riva pareva un giardino, perché tutto il palazzo di Barbon era rimasto intatto con tutti i suoi mobili; era come un paesetto.
In piazza a San Vito, appena passato il negozio alimentari, verso Valdobbiadene, si vede una gran muraglia, là c'è il Camparà ... ed è chiamato il palazzo di Barbon perché vi abita la famiglia Barbon. All'epoca vi era un parco, le viti erano più in basso; sopra vi erano tutti alberi. La bellezza del paese - che era il palazzo di Barbon - era andata tutta su quel verso della strada. La strada andava giù sulle grave e qua c'era come una riva e c'era come una cittadina piccinina, con tutto quello che occorre per fare un paesetto, con le sue case con i suoi cancelli.
Però il palazzo di Barbon era andato per terra[?]. Però avevano potuto tirar fuori tutto prima che venissero le granate e l'avevano portato tutto giù di là perché su quel punto là non arrivavano le bombe. Così noi quando siamo ritornati a San Vito, e siamo andati giù di là a vedere, siamo rimasti d'incanto perché tutta la roba di Barbon, delle case nostre che si poteva aver là, era tutta là, per il cortivetto, per l'aiuola, un vero paese. Ed erano stati i tedeschi che avevano fatto quel lavoro là,  sistemato tutto bene...
Noi siamo stati dapprima nelle botti e poi da soli siamo riusciti a ripararci alla meglio in un angolo della casa, soprattutto per la notte e per la pioggia.

Ho dei parenti a Rovarè, Monastier, da quelle parti dove è nata mia mamma. Noi andavamo a far la spesa a Monastier e io abitavo lungo il drizzagno per andare a Fornaci. Dopo la guerra qua a San Vito c'era lavoro per mia madre, che faceva da mangiare agli operai, ma io e mio fratello eravamo andati dai nonni a Monastier.
Al tempo della guerra io abitavo in località Santa Caterina di San Vito.

Nastro 1994/35 - Lato B

Aggiunte e correzioni, 16 settembre 1994

Ho lavorato in filanda a Valdobbiadene.
La vecchiotta con cui siamo andati a Vittorio Veneto era la mamma di Bastianel (Sebastiano), Lùcietta Vanzin moglie di Francesco Sebenello.
Io abitavo in via Santa Caterina e mi sono sposata a trent'anni, nel 1929. Quando avevo 27 anni ero ancora a Torino. Mi sono sposata due anni dopo. Ho avuto tre figli, ma due morti piccoli, uno solo sopravvissuto.
I tedeschi a mezzogiorno ci davano da mangiare acqua scaldata con dentro sì e no qualche patata, senza condimento, senza niente; bòbara
Si mangiava male noi ma mangiavano male anche i tedeschi ... e i prigionieri russi come noi. I russi erano alloggiati in un albergo e avevano il loro cuoco che gli faceva da mangiare, ma non avevano niente per far da mangiare. Qua c'è l'albergo, lungo la strada, e qua c'era una casetta con quattro ragazze e una vecchiotta, sua mamma. Queste ragazze, quando avevano qualcosa da mangiare, glielo passavano ai militari perché non avevano altro che acqua, anche loro, come noi.
Ogni tanto si andava fuori e si stava via 4-5 giorni, una settimana, giù per la bassa. Si trovava qualche chilo di farina ... tanto che sono anche andata in prigione col sacchetto di farina. Però sono riuscita a portarmela a casa, perché siamo riuscite a scappare, perché non erano vere e proprie prigioni era un posto per essere chiuse dentro, così. 
Si correva per la campagna, si correva per tutti i cantoni, a nascondersi. Comunque la roba [raccolta con l'elemosina] non sono mai riuscita a portarmela a casa tutta, perché se in un bel sacco si aveva tanta farina, loro ne portavano via metà, o anche più. Perché [i tedeschi] erano senza anche loro.
Il ritorno in paese. 
Noi siamo stati i primi a tornare a San Vito e abbiamo dormito su queste botti senza coperchio perché siamo arrivati verso sera, sulle sei-sette. Assieme alla mamma ci siamo chiesti: «Dove ndóne, cossa éo che se pol far?». Vicino a un muro no, perché era pericoloso ... e allora c'erano tutte queste botti e siamo andati dentro a queste botti, due per botte. Eravamo in quattro, con le strasse che si avevano, senza niente. Eravamo io, la mamma, mio fratello Silverio e mio papà [?].
Quando siamo partiti profughi per Follina, siamo andati lungo la strada, non per le montagne. Su per San Piero, San Stefano, Combai e piano piano siamo arrivati a Follina, di notte.
Di notte non si sapeva dove andare e abbiamo trovato un vecchiotto che ci ha detto che c'era una fabbrica di stoffe con delle stanze libere. Non si aveva niente, le stanze erano vuote ... e sono arrivate due donne che hanno portato un bel po' di canne di granoturco. Con due fasci di canne ciascuno ci siamo buttati per terra a passare la notte.
Siamo partiti e arrivati alle porte di Vittorio Veneto per conto nostro e a Vittorio ci siamo fermati sulle prime case appena dentro. Là abbiamo trovato una che era arrivata prima di noi, proveniente da San Pietro [di Barbozza]. Avrà avuto una quarantina d'anni e ci ha detto: «Sono arrivata qua da sola, li ho persi tutti». Noi avevamo un po' di farina, abbiamo fatto una polentina e l'abbiamo mangiata assieme. Poi lei ci ha consigliato di andare su verso il paese di San Floriano, dove ci siamo fermati nella canonica e abbiamo cercato il prete. Il parroco ci ha indicato la famiglia di Santo Piccin, una famiglia di contadini che stavano bene, avevano terra propria e casa propria. Santo era sposato e aveva una bambina di tre anni. Era scappato da militare ed era venuto a nascondersi a casa e là era riuscito a rimanere, sempre nascosto. Nessuno lo ha mai preso, e intanto lavorava la sua terra.
Avevano le bestie in stalla e noi dormivamo di sopra, sul fienile. Le bestie erano chiuse dentro e non le si sentiva né mugolare né niente ... era un destino anche quello, sembrava quasi che sapessero di non far rumore e in questa maniera le hanno salvate. Dopo la guerra, con Piccin ci siamo persi di vista, non ci siamo più visti.
[Il disertore] Santo si era trasformato in una maniera tale che sembrava due volte più vecchio, si era lasciato crescere la barba. Ma era anche giù di salute, per il mangiare e per le paure ... e che era fortunato ad essere assieme a sua moglie! Aveva la sua bambina e in famiglia con loro c'era un'altra sua cognata che aveva tre bambini che andavano scuola. Noi profughi eravamo sistemati sopra il fienile.
Mio padre è morto prigioniero a Vienna in ospedale, con la febbre spagnola. Aveva due figli solo.

sabato 17 aprile 2010

Intervista a Geminiano Pizzoni

Nato nel 1905 a Borgo di Sopra di Orsària (Premariacco, UD). Residente a Orsària.

Nastro 1998/17 - Lato A                           15 ottobre 1998

Sono stato uno dei primi a farmi la patente, anche se adesso non mi fido più di correre in auto ... ma la mia patente sarebbe valida fino al 1.1.1999.
Nel '35 ero in Africa e là mi trovavo anche al tempo della Seconda guerra.
Io del 1911 mi ricordo che anche quelli di Orsaria sono andati in Libia; i primi militari che io ho visto sono arrivati qua per andare in Libia nel 1911.

Nel 1915 mi ricordo come adesso che andavo a prendere col carretto e col cavallo.
Mi ricordo il giorno in cui è iniziata la guerra. Sono venuti militari che erano in tutte le case, io abitavo poco lontano da qua, sempre a Orsaria ma in Borgo di Sotto ... per andare a Cerneglons. In casa nostra, nelle stanze, nel granaio ... pieni di militari!

Nastro 1998/17 - Lato B

Mio padrino mi mandava a vendere i giornali a questi soldati, soprattutto il Gazzettino, perché allora non c'era nessuno che vendeva i giornali ... e anche le sigarette. Robe da non credere quanti militari che c'erano, dappertutto ... migliaia e migliaia...
Più che della ritirata io mi ricordo della guerra, quando è cominciata...
Io mi ricordo proprio di quel giorno in cui è cominciata la guerra, il 24 maggio 1915 e sono andato in una casa dove c'erano già dei militari ... perché lo Judrio che era il confine di allora, si trovava a pochi km...
Della ritirata di Caporetto ormai mi sono dimenticato. ( ... )
Venivano in riposo dal fronte, a casa nostra, tutti sporchi, mi ricordo, e stavano qua 15-20 giorni e cambiavano vestiti, si lavavano e poi tornavano via. I vestiti li lavavano loro, sul Natisone. Stavano qua a Orsaria di riposo e poi ritornavano in prima linea. Io ero sempre con loro...

Qualcuno nelle osterie [fra gli arditi, interviene Pietro Juri, 1926, l'informatore] non pagava... ma di solito pagavano...

Dopo Caporetto [ricorda una signora presente all'intervista] ... innanzitutto quando sono arrivati i tedeschi ... uccidevano i maiali, li mettevano a bollire e poi bevevano il grasso ... e stavano male o morivano, in tanti ... [sono molte le testimonianze simili] ... poi i civili del luogo sono stati portati via, internati. Prendevano via tutti gli uomini e i vecchi di casa, anche mio fratello.

Ad Albana, all'inizio della guerra, c'era un ospedale da campo in cui un dottore faceva morire tanti soldati italiani. Per un dito venivano là a medicarsi e morivano ... era austriaco, questo medico, ma non lo sapevano. Magari venivano dal fronte con una ferita da poco ... andavano in ospedale militare ad Albana di Prepotto e morivano [purtroppo la voce della signora è sommersa da quella di Juri e di Pizzoni...]. Queste cose me le raccontava mia mamma, che era del 1892 e che sapeva queste cose...

Ricorda Pizzoni che nel campo d'aviazione, quando potevano, gli aviatori portavano i bambini sugli aerei, a volare...
Quella era veramente guerra, per quelli che erano militari...
Averli visti che venivano giù ... saranno stati trenta quaranta militari ... roba da vergognarsi a vederli. Erano tutti di pantano i vestiti ... ancora attaccato ai vestiti ... un po' di terra un po' di sabbia. Averli visti quando arrivavano dal fronte c'era da piangere, robe da matti, uno che non ha visto non sa, ecco!

Ricorda la signora che la famiglia di Pizzoni era scappata, dopo Caporetto, verso Codroipo, ma sono stati via poco, perché non sono riusciti a passare di là. Sono andati via col carro e coi buoi e dopo sono ritornati. Avevano lasciato a casa una mucca e poi quando sono tornati non l'hanno più trovata: l'aveva un'altra famiglia che era rimasta...  

lunedì 15 marzo 2010

Intervista ad Antonietta (Adina) Bond - Pontet/Montecroce - Imer, TN



Nastro 1999/5 - Lato A                                17 settembre 1999

Siamo a Pontet, vecchio confine Italia-Austria nel Primiero (Val Cismon). Parlo con la signora Bond che, assieme al marito, gestisce l'albergo dove un tempo c'era anche la dogana. Di fronte a noi c'è il ponte sul torrente Cesila, che fa da confine (ora fra Trentino e Veneto, Trento e Belluno, fra il comune di Imer e quello di Sovramonte).

Subito a sud del ponte (in territorio veneto) è stato trovato un leone di San Marco che era infisso su una casa, dove ora si vede una scala che scende verso il lago. La casa è stata demolita nel 1963 e il proprietario ha venduto il leone; la signora Bond non sa a chi. Il lago che si vede si è originato fra il 1960 e il 1963, periodo in cui è stato costruito lo sbarramento per la centrale idroelettrica dell'Enel e si chiama lago di Val Schenèr, così pure la diga e la centrale che c'è più avanti. A guardia della Repubblica Veneta c'era un castello, che è andato a finire anche quello sotto l'acqua, ma era ormai già demolito. Comunque i castelli erano due: uno in territorio del comune di Sovramonte (BL) e uno un km e mezzo più indietro (in Trentino), a fianco della prima galleria che si trova sulla strada, e adesso è sotto l'acqua anche quello.

La casa che aveva il leone era abitata dai primi abitanti dello stato italiano, perché qua eravamo in Austria. 
Io sono una Bond, originaria di Mezzano, e quando qua c'era il confine, non c'erano né mia mamma né mio papà. 
Mio papà ha fatto il soldato sotto l'Austria e mia mamma abitava proprio qua, in questo gruppo di case, che allora si chiamava Montecroce. Di là, in Veneto si chiamava Pontet e di qua Montecroce. Poi il paese è scomparso. Erano quattro case in tutto, ed è rimasto il nome Pontet.
Questa casa in cui ora c'è l'albergo era del Comune di Imèr che la dava in gestione come un'osteria a uno che era incaricato dal comune di assistere quelli della valle che uscivano e avevano bisogno di pagare il dazio. Quando, dopo il '18 non ci fu più il confine, è rimasta solo l'osteria; così mia mamma l'ha presa in affitto. Allora non c'era più la dogana, quindi era solo osteria e tabacchi. Mia mamma si chiamava Malacarne Gasperina Giuseppina ed era del 1890.
Pontet = ponte piccolo; però il confine era in realtà in località Monte Croce…
Poi mia mamma si è sposata con mio padre, che nel frattempo era ritornato dalla guerra, ed era anche lui del 1890. Si chiamava Pietro Bond … Bond, come 007! 
Mio padre era stato militare in Galizia e non fu ferito; era istruttore di cavalleria. 


Pipa in porcellana del Kaiserjäger Pietro Bond, Mezzano (Primiero, TN).
Sul raccordo è impressa la seguente strofetta:
«Questa fiamma dovra servire  
Qual ricordo in avenire
Dell[e] rabbie e dispiazeri  
Che provai coi cannonieri» 

Note 
1) La tecnica utilizzata per la decorazione della pipa è la pirofotografia (o fotoceramica) che raggiunse  il suo massimo splendore a fine Ottocento-inizio Novecento grazie all'opera di abilissimi artigiani.
Essendo una lavorazione del tutto manuale, dai costi inevitabilmente molto alti, questa tecnica sarà destinata a un rapido declino a favore di forme di riproduzione fotografica più economiche.
Cfr. Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia, Bruno Mondadori, 2000, scheda a p. 405. (Consultaz. del 28.8.2012 su Google libri).
2) Per le caratteristiche tecniche della pipa, cfr. la sezione Museum del sito I recuperanti (Mezzano a Primiero).
3) Se si aggiunge quanto scritto nel n. 1 all'ancor più grande valore affettivo - essendo la pipa appartenuta al papà della persona intervistata - ci si potrà rendere conto dell'irreparabile danno da me causato con la rottura di questo esemplare, sfuggitomi di mano durante le riprese fotografiche.
Un errore che non riesco a perdonarmi e di cui colgo l'occasione per scusarmi.  


Finita la guerra i miei genitori hanno preso in affitto questo pezzo di edificio dal comune mentre la parte di edificio più verso Primiero era di una famiglia di Fiera di Primiero, famiglia Benn, e quella era la casa in cui abitava l'impiegato del comune, gabelliere, quello che praticamente faceva le bollette del dazio; non mi ricordo esattamente come fosse chiamato.
La famiglia Benn, visto che non c'era più il gabelliere, ha venduto la casa ai miei genitori e poi in seguito abbiamo comperato noi (io e mio marito) anche il resto dell'edificio, che apparteneva al comune. 
D. Quando suo padre è tornato dalla guerra e si è trovato sotto l'Italia, cosa ha detto?
R. Ah, ben, mio papà si è fatto sei mesi di prigionia a Isernia, e se non è morto là! Per poco vi moriva di fame, erano in una prigione, non gli davano niente da mangiare e quasi morivano di fame. Li hanno messi in prigione perché pensavano che fossero gente che avrebbe fatto disordini.
Mia nonna era di Riva del Garda, ed è venuta ad abitare qua. Lei era figlia di un gendarme, di un ufficiale, non so cosa fosse; probabilmente erano proprio austriaci "nella mente" e sarà stato questo che li ha… 

Mi mostra la foto di suo padre con un fratello vestito da prete. 


Da sx i fratelli Aristide, Don Antonio e Pietro Bond, padre di Antonietta (Adina) che gestisce l'albergo "Al Lago"
ex dogana austriaca di Montecroce-Pontet - (Foto gc. da A. Bond)
So che mio padre quando è tornato a casa dalla guerra è passato dalle parti di Torbole, dove questo suo fratello era sacerdote in quel paese … e questo zio prete ha dato una pistola a mio padre. E pensare che mio padre aveva fatto sei anni di militare senza mai sparare un colpo. Questo mio zio ha dato questa piccola pistola a mio padre durante la ritirata del '18, mentre veniva a casa, alla fine della guerra.                                                                         

Intervista a Silvio Gobber



Nato a Masi di Imer nel 1912. Residente a Masi di Imer.
Nastro 1999/4 - Lato B                                         17 settembre 1999


Ero suddito dell'Austria e poi siamo diventati cittadini italiani. Qua si sentivano proprio anche nell'anima austriaci.
Poi nel '22 è venuto anche il fascismo e ha fatto opera di italianizzazione. Noi eravamo bambini e non abbiamo subito il trauma di questo trapasso. Mio padre Gobber Giovanni, classe 1874, quando è tornato dalla guerra ha conservato il suo posto. Mio padre era "sorvegliante forestale" … poi è venuta la milizia forestale, con il fascismo, ma prima c'erano questi custodi, uno-due per paese.
Pur essendo anziano, mio padre è stato mobilitato, durante la guerra ed è stato portato verso il fronte della Galizia anche lui, ma non posso dire con precisione dove….

Mi mostra le foto di suo padre, sorvegliante forestale. Sulle mostrine della divisa sono raffigurate delle foglie di quercia.


Giovanni Gobber, 1864 - Masi di Imer TN - in posa prima della Grande Guerra
L'intestazione del fotografo Luigi Gubert, che operava nel Primiero, 
presente nel retro della foto di Giovanni Gobber

Dopo la guerra gli italiani hanno preso gli abitanti di Masi che erano rimasti in paese durante il passaggio delle varie truppe e li hanno internati a Isernia. Mio padre invece, che poteva rimanere in paese, ha preferito essere mobilitato … anche perché se fosse rimasto qua sarebbe stato internato anche lui [?]…
La nostra famiglia comunque è rimasta sempre a Masi. Avevamo i militari in casa, tutto il paese li aveva…
Masi né è stata bombardata né ha visto azioni belliche; solo ha visto i vari passaggi di truppe. «Che mi abbiano riferito di spostamenti di popolazione: niente».
Mio padre (e gli adulti) avevano un ricordo straordinario dell'Impero austro-ungarico, che per loro era la stabilità. Non aveva una buona fama, l'Italia, qua in paese, quando arrivò. Per loro erano usurpatori, quasi. Qua nessuno si sognava di passare sotto l'Italia. Di irredentisti: nessuno, che ne sia venuto a conoscenza io…       

Giovanni Gobber, sorvegliante operaie forestali (1938)

Nella dedica della foto alla figlia Antonietta, 1921,
si intuisce l'amarezza del vecchio Gobber per il trattamento subìto a 44 anni
(cioè nel 1918, con la nuova amministrazione italiana) quando lui - viavaista diplomato -
 viene "Elliminato" e retrocesso a semplice sorvegliante.