martedì 11 maggio 2010

Intervista a Maria Todoverto Pasquale

Nata il 4 agosto 1899 a San Vito di Valdobbiadene (TV).

È presente il figlio.

Nastro 1994/32 - Lato A                        24 agosto 1994

Siamo arrivati a Vittorio Veneto io, mia mamma, mio fratello, altri due bambini e una vecchiotta, e una volta arrivati a Vittorio non si sapeva più da che parte andare. Allora abbiamo preso la strada diretta che va verso Ponte nelle Alpi, su per San Floriano. A San Floriano c'era un albergo vuoto, con però dentro dei prigionieri russi, e di fronte c'erano delle case. 
Là siamo rimasti un pochettino. C'era la canonica e il parroco ci ha indicato la casa dei sagrestani, che ci hanno fatto un pochino di caffè, alla buona di Dio, ma insomma abbiamo mangiato qualcosa. 
Dopo non si sapeva dove andare e ci siamo portati in una casa sotto la montagna, sulla riva, da una famiglia di contadini benestanti, che avevano anche un terreno a San Giacomo e che avevano una stanza nel retro della casa. Vi abbiamo messo un po' di fieno per terra, ci siamo sistemati meglio che abbiamo potuto e siamo sempre stati là. Abbiamo lavorato con loro.
Poi siamo andati a lavorare per i tedeschi quando hanno messo il lavoro sulla strada da San Floriano a Nove. Si lavorava dalla mattina alle otto fino a mezzogiorno. A mezzogiorno ci davano un po' d'acqua con quello che capitava dentro ... e dopo si tornava a lavorare fino alla sera, quando si ritornava in questa casa.
I padroni avevano anche una bestia nascosta ... e per fortuna non muggiva mai! Così si riusciva ad avere un goccio di latte. C'erano anche dei bambini, ce n'erano quattro di loro.
Insomma tra i contadini e tra andare sulla strada, siamo andati avanti.
A volte si andava anche verso Vittorio per vedere cosa si poteva fare, ma visto che non c'era di meglio siamo stati là fino alla fine della guerra.
Per trovare da mangiare, in quattro ragazze con un carrettino si andava «a carità verso la bassa», nei paesi di pianura dove c'era la campagna. Passando per i campi di erba medica si raccoglievano i radicchi [tarassaco], e Dio ce ne liberi perché li abbiamo mangiati tutti crudi; così com'erano li si mangiava. Per dormire, quando si era fuori anche la notte, si andava in qualche casa, o in qualche fienile. Chiedevamo se ci lasciavano andar dormire e ci lasciavano andar dormire sul fieno. Alla mattina ci si alzava, si partiva e si camminava ancora e poi si tornava a casa con un sacchettino, con una branca di farina con qualcosa che si trovava par carità [elemosinando].
Ma quando si era per la strada bisognava stare attenti perché gli altri ci portavano via [il mangiare], i tedeschi. I militari stessi ci portavano via il sacco, lo portavano al comando e noi si doveva andare a casa senza niente. Bisognava fare tutti i nascondigli che si poteva fare. 
Giù nella bassa c'erano le famiglie grosse - con anche quattro cinque matrimoni all'interno della stessa casa - e c'era sempre qualche donna più buona delle altre che ci dava qualche branca di farina, na ciopéta de pan, qualcosa per i figli, così...
Si aveva sempre qualcosa da poter portare a casa; solo che bisognava stare attenti che non ce la portassero via.
Andavamo a carità soprattutto noi quattro-cinque ragazze, tutte giovani dai 18 ai 22 anni; mia mamma stava a casa con i figli. Poi se n'è aggiunta un'altra che era partita dalla Francia e si era trovata là in mezzo, con noi. Lei era più anziana di noi, e aveva girato il mondo. Ci indicava ... si va da questa parte o da quest'altra.
Mio padre era soprannominato Pasquale ed è morto prigioniero in Austria. Era stato fatto prigioniero da civile a Vittorio Veneto, lo hanno portato [internato] in Austria. Erano in sette italiani, portati tutti sette in ospedale, sono morti tutti di febbre spagnola nel giro di una settimana...
Siamo partiti da San Vito alla mattina verso le 11 quando erano iniziate le bombe italiane e non si poteva più stare in paese. Il nostro parroco Don Giovanni Tura ci ha portati su per le montagne, perché per altre parti non si poteva passare e siamo andati "su per le prese" e sulla montagna sopra Valdobbiadene e abbiamo incontrato su per la montagna anche quelli di San Piero (S. Pietro di Barbozza). Eravamo tutti su per la montagna, e dopo si è presa la strada che andava diretta a Vittorio Veneto. I più giovani erano andati verso la pianura perché dicevano che si poteva far qualcosa di più... 
E darsi da fare sempre per mangiare, perché non c'era niente...

Interviene il figlio
A San Vito [di Valdobbiadene] tutto il paese è andato su per la montagna ... su per Sanguarda; poi hanno attraversato la montagna verso San Piero e Santo Stefano e poi sempre a mezza costa sono andati a Miane, sempre seguendo i sentieri. E da Miane a Vittorio Veneto.
ll parroco attuale di San Vito ha fatto dei libri che hanno tutta questa storia.
Quando poi sono ritornati ... qua c'è la villa Barbon, dove c'era il comando degli italiani che passavano agli abitanti ritornati un piatto di minestra.
E dormire dove? Che le case erano tutte a terra! Hanno trovato qualche grossa botte, aperta sul fondo e là si sono ritirati per qualche notte. 

Tutto il paese era su per la montagna, tutti.
Quelli che potevano camminare camminavano e gli altri (che stavano male o che erano troppo vecchi o bambini) venivano portati a spalle; qualche vecchiotto era accompagnato per braccio. 
Senza portarsi via niente, lasciando a casa tutto, solo con la roba che si aveva addosso e una coperta. Né vacche, né altri animali...
La prima notte l'abbiamo passata a Follina, sulla fabbrica in cui non so cosa facessero. Là sul pavimento, senza niente. I contadini del posto ci hanno portato su un poche di canne di granoturco in maniera di non essere proprio a contatto con il pavimento, e là abbiamo dormito due notti.
Dopo siamo partiti e siamo andati a Vittorio Veneto e a Vittorio ci siamo dispersi una famiglia di qua un'altra di là, perché c'erano delle case vuote, quelle della popolazione che era scappata prima, che aveva fatto in tempo a scappare. Ci siamo sistemati, si lavorava per i tedeschi e loro ti passavano questa scodella di acqua.

Il lavoro consisteva nel ripristinare le strade [figlio].

Noi eravamo ragazze di 18 anni e sedute per terra ci portavano dei sassi grossi e con i martelli li spaccavamo per fare la ghiaia da buttare sulla strada. Perché era la strada che andava a Ponte nelle Alpi. Era sempre rotta e noi si era sempre in un angolo a battere questi sassi e farne tutte schegge così, come ghiaia: si faceva le "stradine", in quella maniera. Più che fatica, era fame! Perché a battere sul sasso col martello e non avere niente dentro... 
Per fortuna che poi abbiamo avuto fortuna. Sono arrivati i prigionieri italiani, che passavano su dei camion ... e sui camion loro avevano sempre qualcosa di nascosto. Salendo per questa strada ci vedevano noi giovani ragazze e c'era sempre qualcuno che ci lanciava qualche ciòpa de pan [pagnotta], sempre cercando di non farsi vedere dai tedeschi. «Ciàpa, ciàpa». Si mangiava per quello, perché c'erano i prigionieri nostri che cercavano di rubare per darcene...
I russi invece erano prigionieri come noi, fermi sempre là in quell'albergo. Senza niente, stavano là, anche loro come noi. Si facevano da mangiare tra di loro, quello che potevano, perché ... che non ne avevano! Non ne avevano da mangiare! Acqua, acqua, e qualche volta una pagnotta. E se qualche volta i tedeschi riuscivano a procurargli qualche po' di fagioli, i russi poi li cucinavano.
Noi ragazze non siamo mai state "tormentate" dai tedeschi e sì che là eravamo tutte giovani.

Nastro 1994/32 - Lato B

Ringrazio Dio di essere ancora qua; sono cattolica, e basta. Ma per mettermi in mostra no! [Non vuole essere fotografata se non dopo molte insitenze].
Mi ricordo ancora che quando si andava in giro par carità a volte capitava di essere messe in prigione. Chiuse in una stanza lungo la strada. Quando ci prendevano con un sacco ci portavano via il sacco e ci chiudevano in una stanza e ci lasciavano là, magari una settimana, con un po' di acqua o di quello che mangiavano i militari. Poi quando ci lasciavano liberi allora si correva per la campagna di quant'anima, per poter scappare...
Vecchi o giovani, quando si poteva camminare, bisognava camminare. E quando si andava giù per la bassa, il pantano era fin quassù (a metà gamba), per le strade.
Alla sera quando si andava a chiedere aiuto per dormire e si dormiva sul fieno, allora col fieno ci si puliva dal pantano. Non si aveva né acqua né niente, e col fieno ci si puliva, si tirava via tutta la terra gialla che c'era giù di là, tutta questa 'palta' che si era attaccata alle gambe.
E camminare scalzi. Non si aveva niente per i piedi. Chi aveva uno straccio di ciabatta o uno zoccoletto di legno come c'era una volta, tirava avanti; ma scarpe nessuno le aveva. Senza scarpe.
Quando siamo partiti da San Vito, mio padre non c'era - era prigioniero - o meglio era a lavorare per i militari. Prima dell'invasione era venuto a casa; quando siamo partiti da qua siamo andati insieme a Vittorio. C'era mia mamma Emilia Battistetti, mio papà Pasquale, mio fratello Silverio e io ... e poi c'era tutto il paese.
Al ritorno a S. Vito la prima notte abbiamo dormito dentro a una botte, sulla via Carobb [...]. C'erano delle grosse botti di vino lungo la strada, ma senza fondo, e si poteva entrarvi. Ci siamo entrate io, mia mamma, mio fratello e altri due assieme. Almeno se piove non ci bagniamo, ci siamo detti, e ci siamo rimasti a dormire per due - tre notti nelle botti.
Nel frattempo avevamo iniziato a lavorare noi, a metter a posto un po' - meglio che si poteva - la casa. Recuperare quello che si poteva. La casa era senza coperto, ma i muri erano in piedi. Non c'era niente per ripararsi, c'erano però delle tavole.
Tutto il paese era rovinato, ma giù per la Cal Fontana invece sembrava un giardino ... è una strada che dal paese va giù verso il Piave. La riva pareva un giardino, perché tutto il palazzo di Barbon era rimasto intatto con tutti i suoi mobili; era come un paesetto.
In piazza a San Vito, appena passato il negozio alimentari, verso Valdobbiadene, si vede una gran muraglia, là c'è il Camparà ... ed è chiamato il palazzo di Barbon perché vi abita la famiglia Barbon. All'epoca vi era un parco, le viti erano più in basso; sopra vi erano tutti alberi. La bellezza del paese - che era il palazzo di Barbon - era andata tutta su quel verso della strada. La strada andava giù sulle grave e qua c'era come una riva e c'era come una cittadina piccinina, con tutto quello che occorre per fare un paesetto, con le sue case con i suoi cancelli.
Però il palazzo di Barbon era andato per terra[?]. Però avevano potuto tirar fuori tutto prima che venissero le granate e l'avevano portato tutto giù di là perché su quel punto là non arrivavano le bombe. Così noi quando siamo ritornati a San Vito, e siamo andati giù di là a vedere, siamo rimasti d'incanto perché tutta la roba di Barbon, delle case nostre che si poteva aver là, era tutta là, per il cortivetto, per l'aiuola, un vero paese. Ed erano stati i tedeschi che avevano fatto quel lavoro là,  sistemato tutto bene...
Noi siamo stati dapprima nelle botti e poi da soli siamo riusciti a ripararci alla meglio in un angolo della casa, soprattutto per la notte e per la pioggia.

Ho dei parenti a Rovarè, Monastier, da quelle parti dove è nata mia mamma. Noi andavamo a far la spesa a Monastier e io abitavo lungo il drizzagno per andare a Fornaci. Dopo la guerra qua a San Vito c'era lavoro per mia madre, che faceva da mangiare agli operai, ma io e mio fratello eravamo andati dai nonni a Monastier.
Al tempo della guerra io abitavo in località Santa Caterina di San Vito.

Nastro 1994/35 - Lato B

Aggiunte e correzioni, 16 settembre 1994

Ho lavorato in filanda a Valdobbiadene.
La vecchiotta con cui siamo andati a Vittorio Veneto era la mamma di Bastianel (Sebastiano), Lùcietta Vanzin moglie di Francesco Sebenello.
Io abitavo in via Santa Caterina e mi sono sposata a trent'anni, nel 1929. Quando avevo 27 anni ero ancora a Torino. Mi sono sposata due anni dopo. Ho avuto tre figli, ma due morti piccoli, uno solo sopravvissuto.
I tedeschi a mezzogiorno ci davano da mangiare acqua scaldata con dentro sì e no qualche patata, senza condimento, senza niente; bòbara
Si mangiava male noi ma mangiavano male anche i tedeschi ... e i prigionieri russi come noi. I russi erano alloggiati in un albergo e avevano il loro cuoco che gli faceva da mangiare, ma non avevano niente per far da mangiare. Qua c'è l'albergo, lungo la strada, e qua c'era una casetta con quattro ragazze e una vecchiotta, sua mamma. Queste ragazze, quando avevano qualcosa da mangiare, glielo passavano ai militari perché non avevano altro che acqua, anche loro, come noi.
Ogni tanto si andava fuori e si stava via 4-5 giorni, una settimana, giù per la bassa. Si trovava qualche chilo di farina ... tanto che sono anche andata in prigione col sacchetto di farina. Però sono riuscita a portarmela a casa, perché siamo riuscite a scappare, perché non erano vere e proprie prigioni era un posto per essere chiuse dentro, così. 
Si correva per la campagna, si correva per tutti i cantoni, a nascondersi. Comunque la roba [raccolta con l'elemosina] non sono mai riuscita a portarmela a casa tutta, perché se in un bel sacco si aveva tanta farina, loro ne portavano via metà, o anche più. Perché [i tedeschi] erano senza anche loro.
Il ritorno in paese. 
Noi siamo stati i primi a tornare a San Vito e abbiamo dormito su queste botti senza coperchio perché siamo arrivati verso sera, sulle sei-sette. Assieme alla mamma ci siamo chiesti: «Dove ndóne, cossa éo che se pol far?». Vicino a un muro no, perché era pericoloso ... e allora c'erano tutte queste botti e siamo andati dentro a queste botti, due per botte. Eravamo in quattro, con le strasse che si avevano, senza niente. Eravamo io, la mamma, mio fratello Silverio e mio papà [?].
Quando siamo partiti profughi per Follina, siamo andati lungo la strada, non per le montagne. Su per San Piero, San Stefano, Combai e piano piano siamo arrivati a Follina, di notte.
Di notte non si sapeva dove andare e abbiamo trovato un vecchiotto che ci ha detto che c'era una fabbrica di stoffe con delle stanze libere. Non si aveva niente, le stanze erano vuote ... e sono arrivate due donne che hanno portato un bel po' di canne di granoturco. Con due fasci di canne ciascuno ci siamo buttati per terra a passare la notte.
Siamo partiti e arrivati alle porte di Vittorio Veneto per conto nostro e a Vittorio ci siamo fermati sulle prime case appena dentro. Là abbiamo trovato una che era arrivata prima di noi, proveniente da San Pietro [di Barbozza]. Avrà avuto una quarantina d'anni e ci ha detto: «Sono arrivata qua da sola, li ho persi tutti». Noi avevamo un po' di farina, abbiamo fatto una polentina e l'abbiamo mangiata assieme. Poi lei ci ha consigliato di andare su verso il paese di San Floriano, dove ci siamo fermati nella canonica e abbiamo cercato il prete. Il parroco ci ha indicato la famiglia di Santo Piccin, una famiglia di contadini che stavano bene, avevano terra propria e casa propria. Santo era sposato e aveva una bambina di tre anni. Era scappato da militare ed era venuto a nascondersi a casa e là era riuscito a rimanere, sempre nascosto. Nessuno lo ha mai preso, e intanto lavorava la sua terra.
Avevano le bestie in stalla e noi dormivamo di sopra, sul fienile. Le bestie erano chiuse dentro e non le si sentiva né mugolare né niente ... era un destino anche quello, sembrava quasi che sapessero di non far rumore e in questa maniera le hanno salvate. Dopo la guerra, con Piccin ci siamo persi di vista, non ci siamo più visti.
[Il disertore] Santo si era trasformato in una maniera tale che sembrava due volte più vecchio, si era lasciato crescere la barba. Ma era anche giù di salute, per il mangiare e per le paure ... e che era fortunato ad essere assieme a sua moglie! Aveva la sua bambina e in famiglia con loro c'era un'altra sua cognata che aveva tre bambini che andavano scuola. Noi profughi eravamo sistemati sopra il fienile.
Mio padre è morto prigioniero a Vienna in ospedale, con la febbre spagnola. Aveva due figli solo.

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