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sabato 24 aprile 2010

Intervista a Gilda Chiarcossi

Nata il 21 dicembre 1910 a Codroipo.    

Nastro 1998/2 - Lato B                  16 febbraio 1998

Noi siamo stati in tempo di guerra a Firenze e sono anche andata a scuola a Firenze in via Romito, io e Gino Cordovado. Lui era dell'11, ma avevamo solo dei mesi di differenza, non tanto; ora è morto.
Siamo partiti da qua [vicino alla ferrovia di Codroipo] e su per la ferrovia con tutta la nostra famiglia, perché eravamo in tanti. Io ero l'ultima di tutta la squadra, e questo Cordovado, con sua mamma, insieme con noi.
Siamo andati a piedi fin oltre il ponte del Tagliamento, della ferrovia, poi ci hanno caricati su un carro bestiame e ci hanno portati a Casarsa.
C'era tanta gente, non qua del posto; noi eravamo ancora in pochi qua di Codroipo a scappare, saranno state poche famiglie.
La nostra è stata la prima casa ad essere costruita in questo viale (Viale Zara), perché mio padre faceva servizio in ferrovia, in un casello qua vicino: mio padre di notte e mia mamma di giorno, di fronte alle case di Daniele Moro, e a volte prendevano la multa perché non erano sul posto giusto...
Io ero bambina e assieme a quel Cordovado là, che era quasi sempre qua in casa, eravamo amici. Sua mamma (Azzano Luigia) aveva solo questo figlio perché aveva il marito in Canadà, ed è partita con noi lungo la ferrovia, a piedi fino oltre il ponte del Tagliamento. Mia mamma si chiamava Pittana Luigia in Chiarcossi Arcangelo.
Io sono l'ultima di dieci figli, e di questi figli uno, Guido, classe 1891, all'epoca era a Vancouver, in Canada, in una fabbrica e dopo la guerra siamo state anche noi a trovarlo.

Nastro 1998/3 - Lato A

... mio fratello era andato in Canada prima della guerra...
D. Chi vi ha detto di partire?
R. Eh, chi si ricorda, adesso. Eravamo bambini di neanche dieci anni, io e Cordovado, che era quasi sempre qua...
Degli altri fratelli, uno era in Canada, uno era sposato a Udine (a Colugna).
Quando noi siamo partiti c'era già gente in movimento, c'era confusione. Siamo partiti di qua che era giorno e poi camminavamo sulle "lame", sui traversi (sulle traversine) della ferrovia, in mezzo alle rotaie. 
Nella ferrovia c'era una fila di profughi, tanti, anche da Udine venivano. 
Si andava tutti a piedi.
Mia mamma ci ha accompagnati fino sul ponte del Tagliamento e poi io ero nella mano con lei perché ero l'ultima della fila e lei ha preso mio papà e gli ha detto: «Senti, tu prendi la bambina - io ero bambina ma mi ricordo sempre le parole - prendi Gilda, e tienila per mano, non mollarla a nessuno».
[...] Mio padre non era militare era nel casello, faceva servizio, e poi è venuto a Firenze, e poi è venuto di nuovo qua in Friuli per fare servizio.
A Firenze, a scuola, io e Cordovado... Due mie sorelle invece andavano a lavorare verso Rifredi, perché c'è via Romito e poi c'è Rifredi. Lavoravano in uno stabilimento che si chiamava Torrigiani, era uno stabilimento che lavoravano roba da mangiare, anche verdure. 


* * *
Conserve Alimentari LTorrigiani Società Anonima - Sesto Fiorentino - Firenze. Molto usato per il rancio dell'esercito italiano, il condimento della Torrigiani veniva ingurgitato dai soldati con crescente disgusto.
Ecco un paio di esempi tratti da memorie di combattenti italiani nella Grande Guerra:


Autunno 1915, Bologna, Caserma Cialdini
    «Noi allievi ufficiali dovevamo, come tutti gli altri fanti, metterci in fila con la gavetta per ritirare il rancio. (...) La sera il menù era costituito dalla pasta asciutta condita con il "Torrigiani", un sugo preparato non si sa come, né con quali ingredienti, e contenuto in grossi barattoli di latta: tutto l'esercito in armi, negli anni 1915-1918, dovette purtroppo adattarsi a quell'orribile condimento che perseguitò i combattenti su tutti i fronti».
      Giulio Bazini, Da Venezia ... a Venezia, Club degli Autori, Firenze, 1970, p. 51.


Settembre 1917,  Zona medio Isonzo dopo la battaglia della Bainsizza. 
    «Presto tornò la calma su tutto il fronte. Quello che però cominciò a farsi sentire sempre più fu il malcontento tra noi soldati. Il trattamento che ci veniva fatto nel vitto, si può dire che era pessimo (...) eravamo specialmente stomacati di quelle famigerate lattine di "Torrigiani" che ci propinavano con la pasta asciutta e più spesso con il riso stracotto che ci toccava ingoiare in mancanza di altro».
     Artigliere Francesco Pilot, classe 1898, Venezia, in Alberto Genova, Noi combattenti a Caporetto e al Piave, Canova, Treviso, 1968, p. 104.
* * *

Sulla ferrovia assieme a noi passavano anche militari, perché dopo hanno fatto saltare il ponte, poco dopo che eravamo passate noi; siamo passati quasi degli ultimi, noi...
Mia mamma è tornata indietro dopo avermi affidata a mio padre. Gli aveva detto: «Prendi la bambina e non mollarla a nessuno».
Mia mamma è tornata indietro da sola sempre lungo la ferrovia... ma ormai non passavano più treni e il servizio era abolito...
Mia mamma quando è tornata indietro ha trovato la casa piena di militari e ha lottato per mandarli fuori, perché ha detto, mi ricordo le parole che ancora ci raccontava: «Voi dovete andar fuori perché qua deve venire la mia famiglia, qua», e insomma, piano piano ha sgomberato i soldati. Così di giorno stava a casa sua e di notte andava da un'altra donna, Lucia Costantini, che aveva un bambina piccola come me, di nome Marianna che avrà avuto forse qualche mese meno di me. Andava là per passare la notte assieme, perché una donna sola qua, non stava bene.
Poi mio padre quando ha potuto è ritornato a Codroipo, e mio fratello anche lui che faceva servizio in ferrovia.
Nell'anno in cui noi eravamo a Firenze, la ferrovia non ha ripreso subito, ci ha voluto tempo a riprendere.
Qua c'era fame e miseria e meno male che i friulani mangiavano polenta... e noi avevamo un campo di terra...
I tedeschi portarono via tutte le bestie, caricavano (infilzavano) le galline sulla baionetta e poi partivano a piedi.

Il papà è venuto con noi a Firenze. Io andavo a scuola e tanti ci maledivano, perché, sa, si andava in coda a prendere un po' di pane e c'era una mia sorella, di nome Roma (e un altro fratello si chiamava Vittorio), che con questa mamma di Cordovado andavano in giro per Firenze a vedere se trovavano un po' di pane per mangiare.
Eravamo in un gran palazzo. La stazione era là e noi eravamo ... sulla ferrovia, non molto lontano e mi ricordo che si andava a giocare vicino alla stazione, con i bambini, si correva a destra e sinistra, fra di noi, bambini profughi.
Eravamo in un gran palazzo tra due ponti, se conosce Firenze, e passavano le ferrovie; era un palazzo dei ferrovieri. Siccome noi eravamo una famiglia di ferrovieri, allora ci hanno messo là, in via Romito tra i due ponti, che poi, se lei conosce, c'è la fortezza. Da questa parte, passando il ponte, si vede la fortezza, che dopo si va in centro. 
In questo palazzo eravamo tutti profughi, la maggior parte friulani, dalla Carnia, Tolmezzo, Chiusaforte, insomma tanti da questa parte.
Da Torrigiani lavoravano le verdure, roba da mangiare per i militari. Era difficile la vita anche là.
Si giocava fra profughi, perché là il palazzo, mi sembra ancora di vederlo, era grande, ma tutti profughi...
Siamo ritornati a casa dopo 17 mesi.
[Io e mia sorella] ci ricordiamo queste cose come un sogno.
Non tutta la nostra famiglia è partita, perché il primo era in Canada, il secondo (Donato) era a Colugna e faceva il battirame, una volta batter il rame andava di moda...
Quando siamo ritornati qua la casa era in piedi, era tutta in sassi, era la prima casa della via, la prima fatta qua. La casa l'aveva fatta mio papà e la casa era sua, lui era casellante.
A Firenze andavo a scuola a Rifredi, mentre mia sorella Maria andava a lavorare da Torrigiani a Sesto Fiorentino.
D. Cosa vi siete portati via da casa, quando siete partite?
R. Niente, giusto, come si dice, un ... vestito per cambiarsi, ma non si poteva. Cosa si può portare via a piedi ... una borsa, un po' di pane, ma pane non ce n'era neanche quella volta; polenta, si mangiava.
Mia mamma non ha voluto partire, cioè è venuta fino sul ponte del Tagliamento e poi ha detto a mio papà: «Prendi la bambina per mano, non mollarla a nessuno, che io torno a casa». Le parole di mia mamma, le ricordo benissimo, e mio papà le disse: «Tu vuoi tornare a casa? Sei matta a tornare a casa!» e lei «Sì, io voglio tornare a casa. Chi è che mi guarda la mia casa!», gli disse. È venuta a casa e ha trovato tutto pieno di soldati e piano piano li ha fatti andar fuori...
Lavoravano in un piccolo casello, lo chiamavano la "garitta". 
A Firenze mio padre ha continuato a lavorare in ferrovia, cantoniere. 
Con il carro merci da Casarsa ci hanno portati fino a Treviso, e poi da Treviso coi vagoni neri che caricano anche oggi, ci hanno caricati là in questo vagone, tutta la nostra famiglia e ci hanno portati fino a Firenze.

domenica 18 aprile 2010

Intervista a Marino Rizzi

Questa testimonianza fa parte di una serie di interviste effettuate il 27 novembre e il 28 dicembre 1998 a un gruppo di vecchi presso la casa albergo Ai Faggi, via Micesio 31, Udine - (animatrice Romina ...).


Marino Rizzi, nato il 7 gennaio 1908 a Udine. 
Intervista registrata nella sua stanza-appartamento

Nastro 1998/22 - Lato A                                             27 novembre 1998    

Io abitavo a Udine, piazzale Giobatta Cella, in periferia. Una volta Udine era chiusa da una cerchia di dazio e quella piazza era fuori dal dazio; vi passa la strada principale per andare in manicomio di S. Osvaldo. Anche allora si chiamava piazzale G.B. Cella, ma era un po' un'accozzaglia di case messe assieme, proprio sotto la ferrovia. Sant'Osvaldo era al di là della ferrovia, io ero al di qua.
Io sono partito da Udine che avevo undici anni. I miei genitori erano sì a Udine, perché mio padre faceva il macchinista della ferrovia, ma le loro famiglie erano originarie dal Veneto: dal lato materno Treviso e dal lato paterno quasi in Trentino, nel veronese verso Rovereto.
A Udine, oltre alla ferrovia dello stato c'era un'altra ferrovia che andava a Cividale e si chiamava "la Veneta", che poi aveva delle linee anche in altre parti, perché l'ho trovata anche a Padova. Mio nonno, dal Veronese, è stato trasferito a Udine.
Noi eravamo piccoli, ricordo le truppe, il movimento. C'interessavano... tanto che, guardi, mi ricordo benissimo, sulla strada per S. Osvaldo, c'è subito campagna e quando un reparto che si spostava per andare al fronte ha fatto tappa là, sui prati, nessuno poteva opporsi, perché c'era la guerra... Mi ricordo che insieme con un mio cugino, un anno più giovane di me, sa i bambini, per curiosare ... e i soldati ci chiesero: «Bocia, dove xe l'acqua bona da bevar?» e ci davano la gavetta e noi correvamo alla fontana e poi lavargli le gavette. Però ci davano anche, mi ricorderò sempre, pastasciutta in bianco, col burro insomma. Erano appena arrivati, nel 1915.
Mio cugino con cui andavamo a prender l'acqua per i soldati non è più da queste parti, perché si è arruolato in marina, ha sposato una bolognese ed ora vive a Bologna e si chiama Giuseppe Zanatta, un cognome prettamente trevisano.  Perché io, andando in villeggiatura a Forni di Sopra, un anno ho incontrato figlia, madre e genero che mi hanno detto che anche loro erano di Treviso, erano maestri, e io gli dissi che anche i miei erano di Treviso, di Selvana Bassa.
Durante la guerra fino dai primi tempi abbiamo sperimentato le incursioni aeree degli austriaci, perché loro avevano l'aeroporto a Ronchi, perché là la guerra è stata ferma 16 mesi prima di prendere Gorizia. Ronchi era in mano loro e là avevano i primi aerei, con i quali naturalmente non potevano andar tanto lontano, però a Udine ci venivano perché interessava, era un centro ferroviario importante, da distruggere. E io purtroppo ne ho subìto le conseguenze.
Adesso una battuta, io sono un dormiglione per natura, loro venivano all'alba e mia madre mi tirava fuori dal letto: «Corri, corri, gli aeroplani»! e io andavo a rifugiarmi sotto il secchiaio, perché ero piccolo e ce la facevo a star sotto, mia madre invece stava in cucina.
Io, di fatto, sono sempre stato figlio unico, anche se mia madre ha avuto cinque figli, perché in quell'epoca c'era una fortissima mortalità infantile ... perché l'ultima volta ha avuto anche una giustificazione: mia madre era incinta e non faceva che piangere ... perché nel mese di agosto del 1917 c'è stata a Udine una fortissima esplosione proprio a Sant'Osvaldo e ci ha fatto scappare da là, dalla ferrovia dove eravamo di casa, su fino in piazza Osoppo. Là i soldati ci hanno preso nei camion e ci hanno portati a Tricesimo, perché non sapevano neanche loro cosa era successo. Dopo sono venuti a sapere che era un deposito di munizioni, che era saltato per aria, ecc. Siamo scappati io e mia mamma, che mi teneva per mano, e quando siamo arrivati in piazzale Osoppo eravamo insanguinati tutti e due, perché dai tetti con gli scoppi piovevano vetri, calcinacci, quella roba così, e noi a piedi siamo arrivati fino a piazzale Osoppo, che si chiamava porta Gemona a quell'epoca.
A Tricesimo ci hanno detto: adesso siete al sicuro, qua; arrangiatevi a trovare un posto e allora, dentro alle case dei contadini, non tanto volentieri, ci han detto là c'è la scala, arrampicatevi, (sistematevi nel fienile), però mi raccomando non fumate. Poi per mangiare ci hanno dato una fetta di polenta e una scodella di latte, perché noi eravamo scappati senza niente.
Io ero in cucina che facevo i compiti, perché a quel tempo anche durante le vacanze... Mia mamma era in bottega, era andata a far la spesa in questo negozio del sior Beniamìn, che aveva il forno, bottega di generi alimentari, ma si vendeva di tutto... quello che oggi si chiamerebbe un supermercato.
Quando ho sentito questo grande scoppio ho infilato la porta e sono andato fuori in strada a cercare mia mamma, e insieme «viaa! viaa! viaa!». L'unica cosa che abbiamo visto è stato una grande colonna di fumo, un grande pennacchio di fumo che si alzava. Noi eravamo convinti che fossero stati gli aeroplani, dopo abbiamo saputo che invece ... dice che avevano visto un prete che si aggirava intorno alle cataste di munizioni, mah... fantasie popolari! Non si può dire, fatto sta che è scoppiata la polveriera e ha fatto tanti danni ai fabbricati, ma non mi sembra abbia provocato dei morti, almeno non si è saputo. Ma cosa vuole, non c'erano giornali.
Il giorno dopo a Tricesimo è venuto su mio padre che era ... non era a casa e neanche in servizio, perché aveva cinque giorni "di malattia" e lui era andato in deposito a Udine e ha trovato da ripararsi in quei buchi che ci sono sotto le macchine, dove vanno a pulirle, e il tetto del deposito gli è caduto addosso. Per fortuna che aveva il bastone in mano e con quello è riuscito a liberarsi. È venuto a casa e non ci ha trovato e allora ha domandato in giro. «Eh, dice, sono andati in su, in su». Insomma è venuto a Tricesimo anche lui, entrava in tutte le case e chiamava: «Catìna, Rino!» fin che non l'abbiamo sentito e così siamo stati insieme tutta la notte e l'indomani mattina siamo tornati giù.
La situazione dove abitavamo era ormai tranquillizzata, anche se qualcheduno aveva creduto opportuno, anche a scopo di furto, a lanciare un altro allarme, dicevano: «Gas asfissiante!». Era una novità per quell'epoca; correva la voce, ma noi siamo tornati a casa e così abbiamo continuato la vita fino al mese di ottobre.
A metà ottobre c'erano chiacchiere in giro per la città: «I tedeschi hanno rotto la linea a Caporetto». Le autorità, forse per calmare, avevano messo fuori dei manifesti, dicendo di non star sentire le chiacchiere, che non è vero niente, e intanto se la filavano come ha fatto il re tanti anni dopo. Ci han piantati là.
Per fortuna mio padre, come ho detto era macchinista, visto il traffico intenso che c'era in stazione, è venuto a casa di corsa col vestito da macchina e tutto. Ci ha tirato vicino e per poter andar a prendere il treno abbiamo dovuto scavalcare i cancelli, perché c'erano i carabinieri. I civili non potevano viaggiare in quel giorno là perché nei treni dovevano viaggiare i militari, e così erroneamente abbiamo pensato che bastava arrivare a Casarsa, al di là del Tagliamento. Siccome noi a Casarsa avevamo i genitori di mia madre che gestivano il dormitorio ferrovieri, proprio sul piazzale della stazione, e là come noi anche altri familiari (erano in otto fratelli di mia mamma) hanno avuto la stessa idea e ci siamo trovati tutti là. 
Mio zio Antonio Zanatta, fratello di mia mamma, era capostazione a Casarsa e quella notte è rimasto solo perché c'è stato un bombardamento continuo di aerei. Eh sì ... perché puntavano al centro di Udine, si può dire, perché Casarsa non è poi tanto lontana ed era un centro ferroviario molto importante, e mio zio...
Noi siamo partiti prima che Udine venisse saccheggiata e bruciata, che poi non credo neanche che abbiano bruciato, hanno solo rapinato perché a detta di tutti avevano una fame, i tedeschi.
Noi abbiamo lasciato la casa così, aperta. Non abbiamo portato via niente da casa. Mio papà è venuto tutto affannato e ha detto a mia madre: «Metti qualcosa nelle foderette dei letti, roba da vestirsi». Perché sennò, a piedi, cosa si poteva portar via, niente! 
Insomma siamo arrivati a Casarsa. Là, in quella notte, appena arrivati c'è stato un disastro di bombardamenti. Per fortuna che mio zio era capostazione e lui smistava i treni, però ha avuto il buonsenso, dato che c'erano tutti i fratelli, i cognati e i nipoti là, di piombare un carro e venire in dormitorio a dire: «Presto, presto, pigliate i bambini», ci ha insegnato il carro e siamo partiti da Casarsa per andare a Treviso. Lui ha piombato il carro in modo che non entrassero altri, sennò doveva ospitare soldati, invece in questo vagone c'eravamo solo noi, fra donne e bambini più che altro ... e ha fatto partire il treno e siamo arrivati a Treviso, perché i familiari di mio nonno e di mia nonna erano a Treviso. Coi quali, io non l'avevo mai sentita nominare, ma mia madre sì, una zia che aveva il banco di frutta in piazza. Quella non era sposata e quando ha visto i bambini era tutta contenta, ci ha portato nel magazzino con la frutta, a guardare, ecc. Però, anche quella sera là, a Treviso abbiamo dovuto subire un bombardamento aereo. Era verso metà ottobre [sic]. Io ero già andato a scuola, dunque le scuole aprono il primo ottobre...
Mio padre aveva un fratello in ferrovia a Rovigo e così ha detto: «Andiamo da mio fratello». Però c'ha fatto un'accoglienza proprio pessima, questo zio. Perché, mio padre non lo sapeva, lui aveva sposato la proprietaria di un negozio, s'era accasato, insomma. E questa, vederci arrivare con bambini piccoli, uuhh... c'ha dato da mangiare, ma al pomeriggio ... siamo ritornati in stazione e poi attraverso non so quale treno - ma mio padre doveva saperlo - siamo capitati a Firenze. E mio padre era con noi, non è più tornato indietro. Indietro cosa? Erano andati avanti i tedeschi!
Una mia zia (Zanatta Maria), sorella di mia madre, viveva con la suocera e il suocero che era paralizzato e abitava in via Valeggio, qua a Udine. Ha messo su una carriola il vecchio, e a piedi sono venuti verso Casarsa. Però in prossimità del ponte sul Tagliamento li hanno sbattuti fuori perché dovevano passare le truppe, e là ha perso il suocero e la suocera. Il caos era tanto, che lei si è trovata isolata da sola, perché i carabinieri spingevano da una parte, perché dovevano far saltare un'arcata del ponte, e son saltati anche parecchi civili, diceva mia zia.
Insomma noi ci siamo visti capitare la zia - anche lei la stessa idea - al dormitorio di Casarsa, scalza, senza zoccoli, scarmigliata, e con i suoceri persi... Lei era giovane, quindi in qualche maniera è passata in mezzo ai soldati ed è arrivata a Casarsa anche lei.
Poi ci siamo divisi. Un fratello di mia madre è andato a finire a Savona, quella mia zia là è andata, con loro, a Savona anche lei; quella non aveva figli.
Insomma, arrivati a Firenze, stop. «Tutti i profughi giù», sul marciapiede, alla stazione di Santa Maria Novella. Di fronte c'è tutta la chiesa, e tutto un porticato. Dice: «Le famiglie, avanti! che (le) abbiamo sistemate nel convento di S. Maria Novella». Sa cos'era la sistemazione? Un po' di paglia buttata per terra!
Allora il papà ... che dovevano presentarsi per continuare il servizio, perché erano militarizzati [i ferrovieri], mio papà aveva la fascia azzurra con tre stellette d'oro sul braccio, era come un capitano. Allora si sono messi d'accordo in tre o quattro di loro ferrovieri, hanno forzato l'uscita e si sono presentati al capostazione principale di Firenze e gli hanno detto: «Noi non riprendiamo servizio se non tirate fuori i nostri familiari da quel luridume che c'è».
Così mio padre a un certo momento è venuto a prenderci, ci ha messi sul treno e ci siamo avviati verso Roma, ma non abbiamo fatto tanta strada, perché Roma non voleva essere inquinata da profughi. Nel frattempo si vede che il capostazione principale aveva avuto disposizioni precise: fermato il treno, fatti scendere, ci hanno portati in centro della città di Firenze. Ci eravamo appena mossi.
Lei sa meglio di me che l'Italia s'è formata partendo dal Piemonte e si è fermata anche a Firenze (che è stata capitale d'Italia), dopo sono partiti e sono andati a Roma. Però a Firenze hanno lasciato un ... si chiamava «Ufficio Decimo», ecco in poche parole: era sistemato in un palazzo grande, mi ricordo che era la prima volta che ho visto l'ascensore. Bene, da Roma è partito l'ordine di vuotare un piano completamente di uffici, trasferirli in altri posti e là attrezzare una stanza per ogni famiglia, col fornello per farsi da mangiare. E loro si son preoccupati di procurarci il pane, il latte e il carbon dolce per farci da mangiare. Questo «Ufficio Decimo», non so quale fosse la funzione di questo ufficio; era delle Ferrovie dello Stato, del Ministero.
E là ci hanno raggiunto anche gli altri nonni, cioè i genitori di mio padre, con una zia che era nubile e si chiamava Lisa; però in una stanza solo, tre di noi e tre di loro, non si poteva stare. Allora mio zio (Oreste Rizzi), un fratello di mio padre, che era maresciallo di sussistenza, ha cercato i genitori quando aveva saputo che Udine era stata sgombrata, ecc.  Così è riuscito ad aver notizie, naturalmente la zia le ha (scritto) un gran male di come era sistemata (zia, cioè sorella di mia madre) ... che poi anni dopo è saltato fuori che era morta una zia Elisabetta e sono venuti a cercarmi fino a Udine perché aveva qualche spicciolo depositato alla Cassa di Risparmio che non si poteva cercare se non c'erano gli eredi.
A Firenze, all'Ufficio Decimo, sovraffollato. Noi bambini eravamo matti per l'ascensore, appena potevamo prenderlo, vrum, avevamo imparato a schiacciare il bottone. Però la Ferrovia è arrivata alla conclusione che non potevano restare tutti là, perché tutti a Firenze cosa facevano? Allora ci hanno messo con le spalle al muro da scegliere un'altra località. Mio padre ha scelto Livorno, e così siamo finiti a Livorno. Là è morta mia sorella, perché era sempre stata ammalata da quando era nata (si chiamava Margherita), perché ne avevo un'altra sorella, prima di me, ma era morta a due anni e si chiamava Maria Teresa. Era morta con quello che a quell'epoca si chiamava il grup (difterite).
Io, mia madre e la bambina siamo andati a Livorno. Là sono stati molto bravi gli amministratori comunali a obbligare... Loro avevano l'elenco delle famiglie che abitavano gli stabili, magari anche di loro proprietà, ma grandi. Difatti, nella casa in cui siamo andati noi c'era proprietaria un'artista di teatro, sola, coi gatti, e c'aveva il piano terra, il giardino, il primo piano e il secondo piano. Il comune ha fatto ... ci ha dato il mandato e quattro famiglie vi ha sistemato; e una quinta, che non era della ferrovia, ma era di Perarolo (BL), ha dovuto sistemare anche quella. E così siamo stati là fino alla fine della guerra.
Ho ricordi piacevoli di Livorno. Io il mare non l'avevo mai visto, e questa città più grande di Udine, e poi si poteva, tranquilli, camminare. Ho fatto amicizia coi compagni di scuola. Perché io ho fatto la quarta elementare in quattro scuole differenti. L'ho cominciata a Udine, ne ho fatto una parte a Firenze (un paio di mesi, forse) e poi a Livorno. Da Livorno, prima di incominciare l'altro anno scolastico, son tornato a Udine. Però le scuole Dante non erano agibili, perché erano state occupate dagli austriaci e quindi dove siamo andati? Siamo andati a fare la quarta...

Nastro 1998/22 - Lato B                                 27 novembre 1998   
    
... qualche classe in una parte, qualche altra in un'altra parte. Io sono finito nel convento della Madonna delle Grazie e ho fatto la fine della quarta [?] e anche la quinta.
Nella scuola della mia piazza, c'erano stati i soldati dentro e lo sa cosa fanno i soldati ... sporcano per terra, strappano le tavole di legno per far fuoco. Era tutto rovinato, poi l'hanno messa a posto e allora siamo tornati.
Dopodiché è morto mio padre, nel '19. Io ero piccolo, non potevo sapere più di tanto. In quel periodo l'Italia e forse anche l'Europa, è stata colpita dalla spagnola. Non so di cosa sia morto, lui non ha potuto ... perché come ho detto aveva la fascia e il servizio lo doveva fare. Io ho sentito da altri con lui che chiacchieravano: avevano un disagio enorme perché al di là di Pontebba, che era Austria, era diventata Italia, ma l'animo della gente ... non potevano sopportare gli italiani, neanche per idea. Se dopo fatta la strada per arrivare a Tarvisio aveva bisogno di qualcosa di caldo ecc. «italiani niente», han dovuto aspettare parecchi anni prima che pian pianino...
Allora mio padre [che si chiamava Emilio], fumava molto, il sigaro. Sicché ha cominciato a restare a casa, a mettersi a letto, poi riprendere, tornare in servizio. L'ha fatto due volte mi pare quella storia là, finché in ultima a mia madre: «non c'è niente da fare»; lo portiamo in ospedale e là è morto in ottobre del '19.
Io sono rimasto a Udine. Mia madre ha avuto dallo stato, dalle Ferrovie, due posti da scegliere: o il dormitorio di Tarvisio, oppure quello di Padova, e lei naturalmente ha scelto Padova, anche perché là a Padova c'era un suo fratello con la moglie e sei figli. Allora lei è andata, lavorava alla mattina nel dormitorio, faceva le pulizie, ritirava le lenzuola, ecc. e al pomeriggio a casa le lavava e le stirava. È stata due anni sola, là, poi in ultimo ha detto: «adesso basta, vieni a Padova anche tu».
E così siamo stati assieme, e così ho cominciato la trafila della cerca dei lavori. Anche allora c'era penuria, ad ogni modo un ragazzo lo pigliavano, ma senza pagarlo, però! 10 lire alla settimana, e andare anche alla domenica mattina: elettricista. Poi ho fatto l'elettricista fino a che mi sono stufato, ne ho cambiato due tre e ho visto che erano tutti uguali. C'erano fuori i bandi di concorso per l'aeronautica, ho fatto la domanda e son finito in aeronautica per quaranta due anni. Sottufficiale.
Fra le altre cose potrebbe essere utile questa storia ... io non so forse non gli interessa. La Libia: vi ho fatto sette anni e c'ho dei bei ricordi, e non so, io glieli regalo, sarebbero delle foto, perché sono in procinto di lasciare Udine, perché mia figlia mi vuole. Io sta roba probabilmente dovrò buttarla via e c'è del materiale che potrebbe esserle utile. La Libia, con le case coloniche che ha fatto il Duce, con la strada. Perché in squadriglia fra le varie specialità c'era anche il fotografo e noi eravamo amici e lui mi dava delle copie. Sono stato anche in Russia, per non saper cosa fare! Foto aeree...
[Faccio una riproduzione della foto di sua madre a Livorno]

Nastro 1998/23 - Lato A   Audio originale integrale da 5:47 a 25:38                             28 Dicembre 1998

Via Valleggio a Udine, la via della suocera con la carriola. Si trova in una zona in cui un tempo c'era un cementificio con sette ciminiere grandi e poi durante la guerra l'hanno buttato giù.
Mio padre quando è morto aveva pochi anni: 39.
A mia madre morirono i figli, il marito, la suocera e alla fine andò a Padova dove prese in appalto un lavoro per la ferrovia e rimase lì fino ai 55 anni, quando andò in pensione. La bambina in fotografia, è Margherita, che dopo è morta: aveva il nome della nonna. All'epoca si usava così, anch'io: Marino è il nome di mio nonno.

08:02 Mi mostra la scatola con le sue fotografie di quando era aviatore nella Seconda guerra e in Libia. 


09:50 Bengasi, agosto 1938... c'è stata una richiesta straordinaria delle varie specialità dell'aviazione, armieri, fotografi e montatori. Io ero sergente maggiore marconista a Bengàsi.
Pensavo di andare in un altro posto (in un'altra casa albergo), «ma ho soprasseduto, perché, via da qua, è raro trovare un posto in cui si è soli, capisce ... e io in compagnia non voglio andare!». 
13:14 Mi trovo bene da solo, con il mio piccolo appartamento, con il bagno, la cucina, la camera da letto, il salotto. Qua c'è tutto.
D. Piuttosto caro?
R. Non più che negli altri posti. Due milioni [di lire] al mese. Se pensa che abbiamo anche un pasto... Alla mattina e alla sera dobbiamo arrangiarci da soli, però abbiamo l'attrezzatura per farci tutto: una cucina completa con frigorifero.

14:10 Mi mostra una foto sul Lago Tana, AOI (Africa Orientale Italiana, fra aprile e settembre 1936). Mi ha regalato quella foto... 


L'albero grande che si vede, aveva appesi tutta una specie di palloncini, ed erano nidi, e le bestie, anche per sporcare, sporcavano per terra, non dentro al nido.
Erano in due idrovolanti italiani MF4.
Foto di un cagnolino-mascotte di nome Gorgorà (il nome della località sul lago Tana).

18:26 Mi mostra il libretto di volo con tutti i suoi viaggi fatti a partire dal 1926 con la 143. squadriglia, poi nella 189. squadriglia, poi ritorna nella 143. 


Noi con gli idrovolanti si doveva trasportare delle persone da una parte all'altra del lago, ma poi è arrivata la Marina con una motobarca. Loro ci impiegavano 8 ore, noi 40 minuti però loro portavano un quantitativo di merci e uomini ben superiore al nostro.
22:42 Per tirar la paga bisognava andare fino ad Asmara e allora si andava con l'aeroplano.
Anche in Tripolitania avevamo un cagnetto mascotte e un indigeno che veniva fare le pulizie. Erano volontari, si presentavano alla mattina davanti alla porta e c'era un caporalmaggiore dell'esercito che sapeva quanti uomini occorrevano e li sceglieva. Erano civili che abitavano nei dintorni.
Io durante il periodo dei tedeschi (dopo l'8 settembre) sono stato in casa di mia suocera a fare il cameriere al bar. Sono riuscito a star fuori... [25:38 - fine intervista]