mercoledì 5 maggio 2010

Intervista ad Oreste Pacquola

Nato a Cavazuccherina (Jesolo) il 28 agosto 1909.

Nastro 1994/25 - Lato A                  28 giugno 1994

All'inizio
Tentativo non riuscito di intervista con un vecchio ardito, classe 1897 (combattente anche a Caposile).

Pacquola
Io all'epoca avevo nove anni e siamo andati profughi a Napoli. È venuto il sindaco a dirci di partire. Mio padre Leone era militare e io ero con mia mamma Maria Vidale, due miei fratelli (Ottorino cl. 1907 e Olindo) e una sorella (Onorina cl. 1903).
Abitavo qua, a cento metri, e qua davanti dove ora c'è la strada [via Cesare Battisti - Jesolo Paese] c'era un fiume, il canale Cavetta che poi è stato spostato più avanti.
Quando sono arrivati i tedeschi, il Cavetta è stato chiuso verso la confluenza con il Piave e poi gli italiani hanno rotto l'argine sinistro in modo di allagare le campagne verso Cortellazzo.
All'epoca il paese si chiamava Cavazuccherina e ha cambiato nome nel 1931. Mio padre era maniscalco.
Anche a quel tempo, in paese a Jesolo, c'era l'albergo Antica Jesolo di cui era proprietario Giovanni Camozzi.
Sulla Cavetta le donne andavano a lavare la biancheria perché fontane ce n'erano solo due. Una era in piazza vicino alla chiesa, che non era dove si trova oggi ma dove adesso c'è la farmacia, in direzione del Sile-Piave Vecio, oltre la Cavetta, oltre il ponte sulla Cavetta...
Buona parte della campagna dietro Jesolo era sotto acqua. Hanno fermato la cavalleria tedesca mettendo dei ferri piantati per terra dovunque; ferri che spuntavano dall'acqua solo di una ventina di centimetri.
Alla fine della guerra a Jesolo hanno fatto prigionieri "un monte" di tedeschi [austro-ungarici], e di là - oltre il Piave - gli italiani hanno tirato dei reticolati e hanno fatto come una prigione su un campo.
Noi profughi siamo stati caricati su un burcio e poi siamo stati portati a Chioggia e da là, con il treno, a Napoli; alcuni altri invece sono andati a Caserta e un po' dappertutto.
Il treno era formato da vagoni per il trasporto anche di cavalli tanto che ricordo ancora che vi era scritto «cavalli 8, uomini 40», me le ricordo io quelle parole là. Eravamo delle famiglie intere ... noi eravamo quattro zii e mia mamma che fa cinque; mio padre era militare.
A parte i vagoni da cavalli, il viaggio è stato abbastanza confortevole e in tutte le stazioni in cui ci si fermava c'era sempre gente che ci dava qualcosa da mangiare.
A Napoli ci siamo trovati bene; perché dicono che i napoletani sono ladri: sono ladri perché non hanno industrie, perché i napoletani a noi ci hanno aiutato tutti. A volte qua è pieno di napoletani e io parlo come loro, mi ricordo ancora il dialetto ("uè, ndove andate, guagliò")... perché a Napoli noi siamo stati tanto, perché siamo tornati nel '21 a Jesolo. A Napoli stavamo fermi là, ci passavano una pensione...
Dove abitavamo noi c'erano due vecchi, di cui uno era un ex cocchiere. Avevano cucina e camera (lui si chiamava Vincenzo e la moglie Antonietta), avevano questa casetta piccola. La cucina era in comune ma noi si mangiava per conto nostro, perché il napoletano ha un altro mangiare.
Abitavamo nel quartiere di Capodimonte, in città, via... Vicino a noi c'era una birreria tedesca e la chiesa della Madonna del Soccorso; là vicino passava anche il tram e noi per andare a casa avevamo delle scalinate da fare.
Io non ho avuto nessuna difficoltà ad ambientarmi a Napoli. Quando passava il tram avevo imparato anche a salirvi sopra senza il biglietto, e una volta un napoletano (controllore) mi ha chiamato per darmi una contravvenzione. Io gli ho risposto in malo modo, alla napoletana, gli ho sputato addosso e poi sono scappato. Lui mi ha corso dietro fino a casa con la pistola in mano, perché ero salito senza biglietto sul tram, mentre correva.
Vicino a casa nostra c'era un professore che si chiamava Iroli e poi c'era una fattoria con fighèri e piante. Eravamo sì in città, ma si confinava con la campagna. Eravamo sulla strada Nuova di Capodimonte.
Ma non avevo fatto molti amici. Nella casa in cui eravamo ospiti c'era solo la nostra famiglia

Mi mostra il paletto (a "coda di porco"), uno dei moltissimi che hanno fermato la cavalleria austriaca davanti a Cavazuccherina. 

L'acqua ricopriva il terreno nella località "Marina", verso la spiaggia, verso lo sbocco del Cavetta e del Piave.
Qua a Jesolo continuavano a funzionare ancora i bacini di scolo delle bonifiche,  verso Cortellazzo invece c'era acqua dappertutto e ancora quando siamo venuti a casa nel '21 c'era acqua in gran parte della "Marina".
Nel 1936 sono andato militare in Cirenaica ... e go ciapà bei schei...
Prima che i tedeschi arrivassero a Jesolo, si era sparsa la voce che stavano per arrivare ... «i xe qua a Caorle».
Mio padre era militare in un "carnificio" (macelleria) a Bologna.

Prima della guerra qua a Jesolo ogni famiglia aveva il cavallo. Adesso invece i cavalli sono spariti completamente, ce ne deve essere ancora uno. D'inverno nella spiaggia di Jesolo c'erano circa duecento cavalli, e anche di più, allo stato naturale e quando pioveva si mettevano fermi vicini uno all'altro in piedi. I proprietari gli portavano da mangiare al massimo una settimana, per il resto si arrangiavano con quello che trovavano sul terreno. I cavalli erano lasciati allo stato naturale nelle mòtare di sabbia che c'erano nella spiaggia, e quando a uno serviva il suo cavallo andava a prenderselo. Anche se erano lasciati così liberi non si registravano furti di cavalli. 
C'era un vecchio, Sante Soncin detto Pessa - che è morto qualche anno fa - che ne aveva due tre e in più aveva il cavallo da monta e ogni volta che portavano una cavalla al cavallo da monta davano al proprietario dieci centesimi.
La razza era chiamata "razza Piave". 
Erano velocissimi tanto che qualcuno riusciva a fare il percorso per San Donà di Piave in 15 minuti. 15 chilometri in 15 minuti,  con il sarét attaccato ... e che non avevano le ruote di gomma questi sarét, avevano ancora i cerchioni in ferro.
Era chiamata razza Piave perché era una buona qualità. Era una razza del posto; a Jesolo ci sono sempre stati cavalli, c'erano delle famiglie che ne avevano anche due.
In spiaggia, per mangiare, i cavalli si arrangiavano. Trovavano sempre qualcosa da becolar, perché la spiaggia è lunga 15 chilometri e loro andavano al pascolo.
Le famiglie avevano anche le stalle, ma per i cavalli d'inverno era come fosse estate.

Ho fatto 8 anni e mezzo di militare e non ho avuto una lira di pensione, un po' perché era artigiano, un po' perché non so. Ora mi trovo con 15.000 lire al giorno.
Ho fatto l'artigiano fino al 1970. Ormai cavalli non ce n'erano più, ultimamente, ma facevo carri, aratri, di tutto per l'agricoltura. Ma pensione niente ... mi hanno mandato a casa il quadro di "cavaliere della patria", ma schei niente! Un giorno o l'altro lo butto via, io!
Sono sposato, ho una figlia [che gestisce il locale in cui l'ho incontrato]. Sono stato ferito in Corsica da una scheggia. 


Mi mostra il segno della ferita sul torace: una ferita piccola, dice, ma l'ho presa io ... e schei niente!

Gli abitanti di Jesolo all'epoca della prima guerra erano pochi. Si lavorava la terra e in paese c'era qualche piccolo esercizio e negozio.
Nella spiaggia c'era gente che andava a fare qualche bagno così, durante la stagione estiva, ma non c'erano veri e propri turisti.
C'era un unico albergo, il Bagni, ed era una baracca, grande, lavorata bene ma in legno. Il proprietario era... poi, dopo la guerra, la moglie iniziò a farne uno, due, altri.
La malaria c'era, a causa dell'acqua marcia che c'era dappertutto. Io non ho preso la malaria, però.
Mio padre lavorava come maniscalco ad Oderzo ed abitava a Meolo. Alla fine della settimana ritornava a casa con la bicicletta ... e là una volta, nella sua bottega, capitarono due signori uno dei quali aveva un mulino qua a Cavazuccherina (si chiamavano Eugenio e Giuseppe Baffi) e mio padre gli ha ferrato il cavallo. Gli hanno chiesto: «Cossa ciapitu al giorno?» - «Do franchi», ha risposto mio padre. - «Beh, se vieni a Cavazuccherina da noi ti diamo 4 franchi al giorno, più mangiare e dormire».
Quando mio padre è tornato a casa e ha raccontato la proposta ricevuta a sua madre, lei gli ha detto: «Ma Leone, là c'è la malaria dappertutto». E mio padre: «Mi mama vae, prove... ». È venuto, e la malaria non l'ha presa.
I Baffi avevano il mulino in centro al paese e funzionava elettricamente, non ad acqua.
Dietro al paese di Jesolo c'era tutta campagna. Le grosse famiglie erano Martin Gioani (il vecchio), poi Bastianutto che sta in Marina, poi un Zanusso a Passarella con ben 54 persone.
Qua a Jesolo c'erano tre dottori, e la levatrice bisognava andarla a prendere con il cavallo.
La vita all'epoca a Cavazuccherina, pur non essendoci il turismo ed essendoci la malaria ... era buona. 
Noi ragazzi giovani si andava tutti al mare a fare il bagno, e una volta io ho salvato un ragazzo perché in spiaggia poco più avanti dell'inizio dell'acqua c'era una sacca che si raggiungeva passando attraverso una buca profonda. Un ragazzino era arrivato su questa sacca ma non era più capace di tornare indietro perché nel frattempo si era alzata la marea. Allora io me lo sono messo in spalla e con la bocca chiusa sono passato sotto acqua trattenendo il respiro finché sono arrivato in spiaggia. Sono pochi metri, ma se non hai coraggio!
Noi non si sapeva nuotare. In paese ce n'erano solo due tre che sapevano nuotare e adesso sono morti. Noi si andava a piedi fino al secondo scano per raccogliere peocini e là ce li mangiavamo sul posto.

Quando siamo tornati da Napoli, nel '21, nella campagna era tutto fermo. La "Marina" era ancora sotto acqua, qua era asciutto, ma màrso. Bombe non ce n'erano, né altri residuati bellici, anche i ferri erano stati tolti, tranne quello che ho rintracciato io più tardi e che ora conservo: era stato piantato sotto una siepe qua dietro... e l'ho trovato recentemente sistemando una rete.
Al ritorno da profughi le case del paese erano quasi tutte a terra, e ci siamo arrangiati a sistemarle.
Dei profughi di Jesolo una parte sono andati a Udine ma là mancava tutto e molti sono morti di fame. Quelli invece che sono andati verso sud se la sono passata meglio.
Avevo un fratello del '7 che è morto appena tornato da Napoli. Qua c'era ancora il sangue che correva, e mio fratello con un trave andava su e giu' di qua e di là della Cavetta, a cavallo del trave, assieme a dei suoi amici. Hanno fatto infezione e sono morti tutti. Di tifo.
Sul Cavetta, pur essendo la guerra finita da molto l'acqua era ancora infetta. Io non l'ho visto il sangue, ma tutti dicevano che era per quello.
Dei ferri piantati nelle nostre campagne io ne ho comprati 16 quintali, da un contadino, un certo Talon, ora morto, e poi li ho utilizzati per fare ferri da cavallo. Li piegavo, erano "tondini da venti". Dapprima li raddrizzavo con la fola [forgia]...

Nastro 1994/25 - Lato B

... si eliminavano i tre o 4 òci (verigoe) dei tondini facendoli arrossare sulla forgia e tirandoli con le mani. Poi si tagliavano i ferri in due pezzi, in modo che il peso fosse uguale e ogni due pezzi venivano fuori due ferri da cavallo. Dapprima si ritagliavano due pezzi di ferro lunghi circa 25-30 cm. a seconda del cavallo, e venivano preparati al grezzo, e poi questi pezzi di ferro venivano presi volta per volta quando si doveva fare un ferro da cavallo.
Non ricordo il nome con cui i militari chiamavano i ferri piantati per terra,  ricordo però che noi li chiamavamo verígoe. Ricordo di aver pagato poco i 16 quintali di ferro, na cantaa de imbriago ... era dopo che bisognava lavorare par ciapàr un franco.
Se non c'erano queste verígoe, per fare i ferri di cavallo si partiva sempre dal tondino, che andavo a comprare in ferramenta. Si partiva sempre dal tondo, che non occorre batterlo... Erano delle gran lavorate, per prendere un franco!
Quelli che pescavano andavano con l'amo, sulla Cavetta; adesso vanno in mare,  ma allora solo amo ... in Cavetta, e nient'altro.
A noi profughi ci passavano anche le scarpe.
Mia figlia Maria (detta Marì) conduce il ristorante "Udinese".

Nastro 1994/26 - Lato B

Aggiunte e precisazioni (12 agosto 1994)

Non è giusto dire che il Cavetta era stato chiuso per allagare la terra ... quella era stata ottenuta con i bacini di bonifica, rotti... I bacini non erano rotti... [?] 
La "Marina" era stata allagata e lo era anche al ritorno; si pescavano i lucci.
I cavalli di Jesolo, prima della guerra erano tutti in spiaggia. Il padre di Pessa Mokè (Bepi Soncin) si chiamava Santo Soncin ed era soprattutto lui che tirava su i burci con i cavalli lungo l'argine. C'era poi un'altra famiglia di cavallanti di cui non ricordo più il nome.
La razza di cavalli (razza Piave) era molto veloce. In particolare ricordo Berto Santin, che aveva un cavallo maschio molto veloce, e poi Giovanni (Nane) Bergamo che partivano da qua e in 15 -16 minuti erano a San Donà. A Passerella si fermavano, davano un secchio d'acqua al cavallo e poi via. Là c'era e c'è tuttora una fontana. 
Questa era la strada da Jesolo a San Donà: Cà Pirami, Mànego dea mola [strada tutta curve che ricorda il manico di una macina = da Ca' Pirami a Passerella di Sopra], poi via del Tram [perché vi doveva passare il tram, che non arrivò mai], San Donà.
Andavano a San Donà per i so afari ... e quando partiva, il figlio doveva preparagli il cavallo ... e quando arrivava il figlio doveva staccarglielo. [Berto Santin] era il padrone, servito e riverito.
Il sarét (calesse) era anche chiamato barachina, solo che la barachina aveva le ruote gommate, mentre il sarét aveva i cerchioni in ferro. Entrambi avevano tre posti, e a volte uno "lo mettevano sotto le ruote" [Pacquola ammicca: cioè veniva fatta salire qualche donna]...
In Jesolo centro, prima della guerra unico albergo era l'Antica Jesolo (di Camozzi Giovanni - Camuzzi in dialetto). In spiaggia invece il Bagni era in legno e a fianco del Bagni c'erano tanti baracchini, sempre in legno. Il proprietario dell'epoca non ricordo come si chiamasse.
Noi facevano il bagno tutti nudi, ma io non sapevo nuotare.
Mio fratello Olindo era del '13.
Marino Talon che mi ha venduto il ferro dei reticolati era uno che faceva tanti mestieri. Erano ferri lasciati là, nessuno li aveva presi ... tanta roba è stata anche buttata nel Piave.
Le verigoe avevano di solito tre òci (tre giri a forma di spirale), a volte anche quattro.

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