lunedì 10 maggio 2010

Intervista ad Eugenio Tomasi

Nato il 23 novembre 1909 a Cismon del Grappa (VI).

Nastro 1999/2 - Lato B                        17 agosto 1999

Nel 1915 quando ha iniziato ad arrivare la truppa italiana, pernottavano qua, nelle tende, sulla terra vicino al fiume. Stavano qua qualche giorno e poi andavano avanti. In fondo, vicino alla stazione c'era il comando tappa e poi un pochi andavano ad Enego e un pochi andavano sul forte Leone.
Io sono un ex minatore, in Germania, in Francia, in Lussemburgo, in Belgio e poi in Africa con le centurie operaie, prima della guerra in Abissinia. Poi ho chiesto al maggiore del genio se potevo espatriare ... ho fatto un anno in Italia e poi son stato richiamato.
Ho preso un po' di silicosi, inoltre l'invalidità per i dolori reumatici, per l'umidità a lavorare a mille metri sotto terra, cinquecento, ottocento.
Mi ricordo l'offensiva di Caporetto del '17. Prima ho visto della truppa partire con i cannoni sui treni, poco distante di qua.
Con la ritirata abbiamo avuto ordine di evacuare e abbiamo fatto tre convogli. È venuto a darci l'ordine il maresciallo dei carabinieri del paese.
La nostra famiglia fino ad allora era rimasta sempre in casa e quella volta ci hanno detto che avremmo dovuto andarcene da casa per sei mesi: «Lasciate qua tutto». Mio padre era militare, richiamato carabiniere. Lo vedevo tante volte passare di qua che accompagnava tradotte fino a Primolano. Poi è stato riformato durante la guerra.
Siamo partiti io, la mamma, il papà, mio fratello più piccolo che era del '14 mentre una mia sorella era a Feltre con i nonni. Anche loro, della città di Feltre, hanno avuto ordine di evacuare, in parte, la città.
Per prima è partita mia nonna con le figlie – i figli erano in guerra – ma non sapevamo dove loro fossero andate; dopo l'abbiamo saputo. 
Mio nonno era guardiano della segheria a Feltre, in faccia alla stazione dove adesso hanno fabbricato. «Beh, beh, diceva, allora partirò domani». Invece domani sono arrivati gli ungheresi e ha dovuto rimanere là. Fortuna ha voluto che lo hanno messo ad accompagnare il cappellano militare austriaco - o ungherese che fosse stato - ed è rimasto con lui per tutto il periodo dell'occupazione. Mio nonno si chiamava Luigi Furlanetto, perché era di origine trevigiana.
Noi siamo andati con il primo convoglio [di profughi] a Caltanissetta. Il secondo è andato a Giarre e il terzo in altri paesi là della Sicilia: tutto il paese di Cismon è andato in Sicilia.
Poi mio padre è andato a lavorare in un campo d'aviazione a Parma e noi siamo andati con lui.
Ricordo a Caltanissetta di aver visto un tenente degli alpini del nostro paese, del battaglione Valbrenta, che poi sono stati su al Berretta. Lui si vede che aveva ottenuto due giorni di permesso, durante la ritirata. Si chiamava Peruzzo Vincenzo e poi ha fatto anche carriera; per un po' di giorni è venuto anche lui giù in licenza a Caltanissetta.
La partenza per Caltanissetta. Ci hanno detto che saremmo stati sei mesi a Rovigo. Invece ci abbiamo impiegato otto giorni solo per arrivare in Sicilia.
Da Caltanissetta siamo andati a Parma a raggiungere il papà e là siamo rimasti fino all'armistizio. A Parma vedevo arrivare tradotte cariche e stracariche di prigionieri austriaci, migliaia... 
Mio zio che era un po' «più avanti degli altri» ha chiesto di tornare nel paese, sei mesi dopo l'armistizio. E allora [...] siamo venuti su, io assieme a lui. 
Qua a Cismon le case erano distrutte. C'era materiale bellico dappertutto, bombe, granate inesplose, di tutto c'era.
La nostra casa era rotta, proprio in centro al paese. Mio padre era carabiniere. Prima aveva fatto due anni di alpino, poi è stato due anni in Germania poi è ritornato qua, non sapeva cosa fare e ha chiesto di ritornare militare, a Roma, dei carabinieri. È rimasto là e si è preso l'encomio solenne a Napoli.
Quando siamo partiti, da Cismon, in tre giorni hanno fatto tre tradotte. C'era il maresciallo, c'era il sindaco, c'era il parroco: erano tutti con noi (il sindaco non era scappato prima). 
Quando siamo tornati, la casa non c'era più; c'erano degli operai dal Bergamasco, dal Friuli che costruivano delle baracche. E finché non ci hanno dato la baracca siamo stati otto giorni dentro un carro merci in un binario morto della stazione di Cismon. Dopo, c'era l'asilo che era rimasto in piedi, l'hanno restaurato un po' e siamo andati sull'asilo finché hanno finito la baracca. 
La nostra famiglia era composta da me, mio padre carabiniere, mio fratello Giorgio e mia sorella Antonietta: cinque persone.
Siamo ritornati sei mesi dopo l'armistizio, nel mese di giugno del 1919. Prima di allora ci avevano detto di non tornare e poi [gli abitanti di Cismon] hanno cominciato a venire [a casa], venire sempre.
A Parma c'erano quelle migliaia di prigionieri austriaci che avevano preso sul Grappa. Io ero ragazzo e andavo a vederli, anche: avevano fame e gli davano da mangiare, gli davano da bere, e li hanno messi dove c'erano i giardini, in una parte e l'altra. Tanti, tanti prigionieri. Erano migliaia di prigionieri, decine di migliaia, perché qua in poche ore, quando hanno fatto l'offensiva i nostri, quelli del Pertica, sono passati direttamente sul ponte che c'era al Corlo, che non l'hanno fatto saltare e sono passati subito.
Questi prigionieri erano proprio in Parma città.
Le nostre truppe, passato il Corlo, sono arrivate fino a Fonzaso dove c'era il comando dell'armata austro-ungarica.
D. Da profugo, a 8 - 9 anni come si trovava a Caltanissetta?
R. C'era della brava gente, anzi c'era uno che era capo dei magazzini delle ferrovie, proprio di Caltanissetta, mi ha invitato tante volte a casa sua a mangiare. C'era di tutto, brava gente là [...]
Mi ricordo che non c'era acqua e si andava fuori in campagna con l'asino a prenderla e si trovava sempre delle pattuglie di carabinieri che andavano in cerca di disertori, c'erano tanti disertori, là.
A noi profughi, ci davano una lira e 25 al giorno.
D. E vi bastava?
R. Doveva bastare, non c'era altro. Mia mamma allora si adattava a fare un po' di tutto, faceva materassi... Poi a Parma mio padre lavorava sul campo d'aviazione.
Quando siamo ritornati qua a Cismon noi ragazzi si andava in giro in cerca di rottami di ferro, cartucce, per venderle, prendere qualche lira e tirare avanti la baracca. Il materiale lo vendevamo a un paio di commercianti qua, che erano autorizzati a raccogliere il materiale bellico.
Il viaggio per andar giù. Otto giorni ci abbiamo impiegato. Siamo arrivati a Rovigo, ma ci han messo in un binario morto per lasciar il posto alle tradotte dei soldati nostri che venivano su e andavano al fronte. Ci hanno lasciato in un binario morto, e poi via, e poi avanti a sbalzi. 
Quando siamo arrivati a Napoli, la Marina ci ha dato un piatto di riso, ecco ... quello ci hanno dato, per strada. È stato un viaggio piuttosto duretto, ma per noi ragazzi, andava, ancora.
Ci eravamo portati via un pacco, da tenere con le mani, e basta. Abbiamo lasciato tutto qua. Tutto, tutto. Al ritorno non abbiamo trovato più niente, niente. Neanche i muri della casa, neanche i muri.
D. E come avete fatto, dopo?
R. Mio papà ha cominciato a lavorare subito, alla ricostruzione del paese, a far case. Si mangiava quello che si aveva. Qualche volta ci davano qualche cosa che mandava l'America, ma ci si doveva arrangiare. Chi aveva mangiava e chi non ne aveva ... "subiàva" [fischiava].
D. Laggiù, come vi trattava la gente?
R. C'era della brava gente, là, i siciliani. C'era della brava gente. Ce n'era di quelli che se ne fregavano, che ci trattavano malamente, ma anche a Parma, non in Sicilia solo; ci chiamavano i profüga, i profughi in parmigiano.
D. Era quasi peggio a Parma che non a Caltanissetta...
R. Sì, sì. 
Noi ragazzi si cercava di arrangiarsi un pochettino. Là vicino a noi c'era una caserma di granatieri. Erano quasi tutti quelli che erano in convalescenza, e io andavo là tante volte. Si portava via della legna da loro e si andava a venderla. C'era un piccolo caffè che così ci dava qualche lira per la legna, sempre a Parma.
A Caltanissetta non c'era commercio.
Lo chiamavano il palazzo ferroviario, ma non era ancora proprio finito e ci hanno messo là dentro. Si era famiglie promiscue, in dieci quindici per camera,  "camerone" grandi. C'eravamo noi qua del paese, friulani...  Si era misti.
Per la scuola, in base alla legge che c'era allora, bisognava avere sei anni compiuti e io li compivo l'anno dopo, in novembre. Così ho iniziato ad andare un po' a scuola là, a Caltanissetta e, dopo, un poco a Parma. 
A scuola mi trattavano bene, mi davano anche da mangiare. Però si era figli di nessuno.
D. Nel complesso che ricordo ha di questo periodo da profugo?
R. Parlano dei profughi del Kossovo, ma noi siamo stati peggio di loro...
Dopo ci si arrangiava. Finita la guerra, si è tornati in paese, si lavorava, lavoro ce n'era, venivano a casa quelli del fronte che si congedavano un po' alla volta.
Nel 1924, a quattordici anni e mezzo, sono già emigrato in Francia, per lavorare. Mio padre era emigrato anche lui, già in Francia, dalle parti di Grenoble. Allora ero ragazzo, lavoravo fuori, da una parte e l'altra; subito dopo sono andato in un'acciaieria. Mi davano un franco francese all'ora perché non avevo i sedici anni. Per otto ore al giorno. Me ne volevano sei, di franchi, per mangiare; e alla domenica si lavorava. Era durissima, e la famiglia era a casa. 
Finché, tira e molla, cambiato lavoro, cambiato di qua, cambiato di là, dopo mi davano una paga come a un adulto: 1,60 franchi francesi all'ora. Poi ho continuato sempre con l'emigrazione.
D. Il ricordo che ha di questo periodo di profugo, se dovesse definirlo, come lo definirebbe?
R. Come i kossovari, come i kossovari! Anzi, loro sono stati trattati meglio, almeno da parte dell'Italia. Noi siamo stati buttati là, e via. E [per fortuna] che ci hanno dato la possibilità di sloggiare, perché qua c'erano gli ungheresi.
Interviene il nipote di EugenioRiguardo a quelli che sono rimasti sotto la dominazione austriaca ricorda che la nonna dell'intervistato è morta di fame. 
«E per fortuna non hanno violato le donne, perché hanno trovato degli ufficiali severi. La bisnonna era là con sei bambini e un soldato tedesco che ha provato fare il furbo si è preso un ceffone dal suo ufficiale. Poi però i civili sono stati allontanati dal paese e li hanno mandati verso Lentiai e là è stata dura. I bambini se la cavavano con la piccola questua».
Eugenio Tomasi. Il paese di Cismon era con le case senza tetto, senza muro, rase al suolo; dipende da dove avevano colpito le granate.
Qua gli austriaci avevano subito fatto dei lavori per mettere le teleferiche e portar su il materiale, partendo da Cismon e arrivando al Fenestron. C'erano due teleferiche che andavano lassù. Una partiva qua sotto, vicino a dove c'è l'imbocco della centrale elettrica e una partiva da Piovega, dove c'è il camping. Quella era più grande e andava un po' più su, e quella portava giù anche i feriti.
Quando siamo tornati noi c'era ancora tutto: c'erano le teleferiche e c'erano armi dappertutto. 
Molti e molti dei miei amici [sono stati] feriti e uccisi dai residuati bellici. Si toccava magari una spoletta, scoppiava, e tantissimi sono rimasti...
La partenza per la Sicilia
Nessuna resistenza, niente. Abbiamo fatto su un fagotto - due, tanto eravamo convinti che saremmo ritornati presto. «Non occorre neanche chiudere la porta», ci avevano detto.
Noi siamo tornati dopo un anno e mezzo, ma altri sono tornati anche dopo.
Hanno fatto le baracche in legno, eternit e mattoni. Era il Genio militare che sovrintendeva a queste compagnie che venivano da fuori. Ma anche gente del posto lavorava: tutti lavoravano, allora. In un paio d'anni Cismon è stata rifatta.

Congedandomi, il sig. Tommasi ripete il paragone con il Kossovo: «Sono stati trattati bene, benissimo loro, e noi altri invece come è capitato.»
Poi anche mia sorella più piccola, che era dell'11, è riuscita ad arrivare a Firenze...

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