venerdì 14 maggio 2010

Angela Salviato, Musile di Piave (VE)

Nata nel 1907 in località Cascinelle.

Nastro 1993/6 - Lato B [da 34:11 su cassetta originale]          13 settembre 1993     Audio originale integrale

Siamo partiti proprio il 1. novembre 1917 e c'erano i soldati che passavano con un ponte di barche di qua del Piave. Quando siamo partiti era di mattina verso le 9,30-10. Io allora abitavo sotto Musile, finché non mi sono sposata, e dopo sposata anche, per un po'. Dopo sono venuta ad abitare a Fossalta.
A Musile abitavo in località Case Bianche.
Quando sono partita profuga ho fatto otto giorni di treno. Giorno e notte finché non siamo arrivati in Calabria a Nocera Terinese. Ma prima eravamo stati fermi per quindici giorni.
A Nocera Terinese siamo rimasti per circa due anni.
Dalle Case Bianche abbiamo dovuto fuggire perché hanno tagliato l'argine del Sile e un metro e mezzo di acqua è entrato nella nostra terra e nella nostra casa.
Avevamo la campagna, sono arrivate le guardie e ci hanno mandato via...
Per prima tappa ci siamo fermati a Campo de Piero, da Romanese. Lo chiamano meglio Campopiero, [Ca' Malipiero] ma anche da là abbiamo dovuto andarcene. 
Siamo partiti il 1. di novembre, il giorno di tutti i santi. Siamo andati a piedi a prendere il treno a Meolo. Io avevo un mio fratello piccolo in spalla e l'ho portato per tutti quei chilometri. Eravamo sei fratelli e nostro padre non si sapeva dove fosse perché era in guerra.
Io ero la più grande, e il più piccolo aveva sedici mesi. Mia madre portava in braccio il piccolo e io portavo un altro fratello, Guerrino, che aveva male a un piede e aveva due anni. Lo portavo in spalla e si camminava sulla Triestina.
Non ci siamo portati via da casa niente. Siamo andati via con quello che si aveva addosso e basta. Non ci hanno fatto prendere su niente, niente, niente. Le guardie sono venute là e ci hanno detto solo: via, via, via...
Arrivati a Meolo siamo stati messi in una tradotta di soldati con paglia sul pavimento, e corri... «Se à coresto oto jorni», e quando siamo arrivati dove era previsto, non c'era posto per riceverci. Torna a montare su questa tradotta e via ancora.
Per primo ci siamo fermati a Firenze, ma là non c'era posto. Dopo ci siamo fermati a Catanzaro e vi siamo rimasti per quindici giorni, tutti dentro a un grande stanzone, non ricordo bene cosa fosse. Poi finalmente siamo giunti a destinazione a Nocera Terinese, dove ci hanno sistemati in un convento di frati. «E là se patìa a fame, èco, cossa volo che ghe disa»
Era un paesino piccolo in cui tutti si arrangiavano con quel pochino che avevano. Il convento era vuoto, i frati non c'erano. Noi eravamo assieme a un'altra famiglia, per un totale di sessanta persone. Anche l'altra famiglia proveniva da Musile.
Siamo rimasti per tanto tempo senza parlare con gli abitanti del posto, per via della lingua. Sensa capirse ... e dopo, un po' alla volta, «se ga scomissià a capirse qualche parola, e mi son 'nata anca imosina» [ ... sono andata anche a elemosinare]. 
Si era sopra a un monte, in questo convento sopra la montagna, e non c'era niente. Tutti avevano quel pochino che era appena sufficiente per la loro famiglia. [...] Non che fossero cattiva gente, ma non ne avevano neanche loro. Allora il parroco del paese ci ha fatto una carta con la quale si andava negli altri paesi e si passavano i fiumi con le vacche e un carrettone grande, con le ruote alte. Fame tanta, caro. Tanta fame.
No ièra né un gioss de late, né gnente [non c'era né un goccio di latte, né niente].
I miei zii più anziani hanno cominciato a protestare e ci hanno mandato un sacco di riso che sapeva da petrolio, che non si riusciva a mangiarlo; per quanto lo si facesse bollire, sempre puzzava da petrolio. Ma se o magnéa, se o magnéa, caro, parché a iera fame. 
Quando è arrivato questo sacco di riso, noi eravamo tutti contenti, e invece sapeva da petrolio.
Abbiamo preso tutti la spagnola, tutti 64. Tutti ammalati, senza niente.
L'unica cosa che c'era in abbondanza era l'olio d'oliva e allora le nostre mamme facevano bollire una pignatona di acqua ci si metteva dentro dell'olio e si beveva quello, senza metterci dentro un po' di pane, senza niente.

Nastro 1993/07 - Lato A        18 settembre 1993
[La parte iniziale di questo lato della cassetta è stata sovra-registrata il 3.3.1994 dall'intervista a Renato Schioppalalba (archiviata come 1994.1b). Si è salvata comunque la trascrizione che nel frattempo era stata fatta. L'audio originale dell'intervista e la rispettiva trascrizione riprendono dal minuto 25:07  - NdC, 1 febbraio 2015]

A Nocera Terinese è nata anche una mia cuginetta.    
La spagnola: una gran febbre a quaranta. Forse erano i soldati che venivano a casa e portavano l'infetto.
Veniva il dottore del paese a visitarci, anche più volte al giorno e diceva: «Guarda, poveri cristiani, poveri profughi». Lo diceva con il suo accento, come che i parléa lori ... «sensa un giosso de late».
Mia madre quando sentiva le capre che venivano giù dalla montagna mi diceva: «Ciapa Angea a pignatèa», vai a prendere un po' di latte; e i pastori, i pecorari, fermavano una capra e mi riempivano il pentolino.


Il ritorno a casa è avvenuto sempre col treno; questa volta treno di terza classe con le sedie in legno e ci sono voluti tre giorni.
Siamo arrivati a Musile, in campagna ... La nostra casa era tutta rotta e in tutta la zona c'erano soldati morti. Quanti! Non si poteva neanche venir fuori a fare un passo. Era tutto uno, tutto uno.
Con questi carrettoni, con questi cassoni, venivano a portarli via. Poi prendevano le bombe, le ammucchiavano e alla sera sul tardi ci dicevano "giù tutti", e noi ci si nascondeva in un angolo della casa. 
Dopo ci hanno dato la baracca di legno, finché non ci hanno ricostruito la casa.
Quando siamo ritornati, "dopo do ani", non c'erano ancora le baracche. Era luglio e abbiamo dormito all'aperto. Solo dopo ce le hanno portate.
Malgrado fossimo già nel luglio del 1919, ancora c'erano i morti per terra. Non ossi, ma proprio soldati, vestiti e non seppelliti ... là sopra la terra.
In quell'occasione ci siamo anche presi la malaria.
E questi morti li portavano via, sui cimiteri. Si vedevano ancora questi morti, ce n'erano tanti, tanti ... quando siamo ritornati a casa. Era tutto un deserto, tutto un bosco, con quelle erbe alte, i paveróni. E in quel groviglio c'erano tuti sti morti, poaréti, tuti soldài.
Nella baracca siamo rimasti un po' di tempo, poi il Genio ha dato il via ai muratori per la ricostruzione.
Le bombe le facevano scoppiare verso il pomeriggio. Facevano di quegli scoppi e di quelle buche! E poi le chiudevano.
Non c'erano invece reticolati sui nostri campi, solo tante bombe e tanti morti.
Dopo che era stata ripulita la terra l'abbiamo arata con le bestie che ci hanno dato i soldati. Le bestie erano grandi grandi, con questi corni lunghi. Gli zii un po' alla volta hanno sistemato la campagna e l'anno dopo l'hanno messa in produzione.
La nostra frazionetta delle Case Bianche, non aveva chiesa. Era composta solo da un piccolo gruppo di case. In famiglia eravamo in 37. Prima della guerra eravamo in affitto, non ricordo di chi. Dopo la guerra siamo diventati mezzadri sotto Bizzarro. Si lavorava una campagna di 84 campi. E in un'unica casa erano in cinque fratelli sposati, cinque famiglie. [...]

Viaggio di andata. Otto giorni che si correva in quel treno, senza mangiare, senza dormire, senza un po' di gabinetto per i propri bisogni. Si faceva su un vaso e poi un colpo e fuori dal treno. Ad un certo punto il treno si ferma e vediamo un prato pieno di cavalli, con tutte queste "bisacche" colme di carrube; e noi avevamo fame. Allora un mio zio è sceso dal treno e si è fatto dare dare una "bisacca" carica di carrube, indicando i suoi figli fermi nella tradotta.
Con tutta la fame che avevamo in corpo, abbiamo mangiato carrube, carrube, carrube ... e per poco non morivamo tutti. Ci avevano chiuso l'intestino. [Fine parte sovra-registrata]

Cassetta 1993.07   Lato A [dal minuto 25:07 alla fine della cassetta]  18 settembre 1993

[…] [Riprende sincronizzazione con audio]

26:50 Il papà era stato prigioniero in Austria e al ritorno si fermò un pochi di mesi dalla nonna a Vallio, per riprendersi un po’ perché era magro, e poi un po’ alla volta riuscì a venirci  a trovare in Calabria, perché  lui non sapeva dove fossimo, né noi in precedenza sapevamo dove lui fosse prigioniero.
27:55 “Devo fare un libro, passerà un paio di anni, prima che lo faccia”

“Eh, ma non sarò qua” … “Deve tener duro! che dopo le porterò, le farò vedere il libro”.

27:11 Mio papà è venuto a casa che pareva uno scheletro. Quanta fame ha patito anche lui, sotto i tedeschi. Mi pare che il papà lavorasse la terra, diceva che c’erano tante patate.

29:42 Il padre aveva nome Giovanni Salviato, e la mamma Amalia. Avevano 8 figli, quattro maschi e quattro femmine
30:11 A Nocera Terinese non sono andata a scuola, e neanche al ritorno, perché era tutto rotto. Ho fatto solo i primi giorni della seconda elementare, prima di partire profuga.
Sapevo fare la firma, ma ora non più.
31:22 - Avevate amici, a Nocera?
Si stava tutti fra di noi profughi. E chi capiva cosa dicevano loro?
Poi erano cattivi, guai al mondo. C’erano, per dire, i fidanzati che si [?]…
- Se per caso qualche ragazzo più vecchio del vostro gruppo andava assieme a una ragazza delle loro…
No, no, nessuno. Anche le mie cugine - si era in tante ragazze - … si restava fra di noi.
- Non ha ricordi di aver avuto amici del posto?
No. Si faceva fatica a capire… solo più tardi siamo riusciti a capire qualche parola.
32:26 Ci chiamavano quatralelle [?] e i maschi quatr […] , non ricordo più.
- Nel complesso erano buoni o cattivi [gli abitanti del posto]?
Non erano né buoni né cattivi, noi si stava per conto nostro.
- Non parlavate neanche col prete?
Sì, si andava anche a messa, giù, dove c’era la chiesa. E il prete vecchio ci diceva “Giovinette quanta pena [pecà] che mi fate: venite sopra da me che vi do un pochi di fichi”. Ci portò su per una scaletta come quella che - una volta - usavano le galline per andare sul pollaio. Ci ha portato in una stanza tutta scura, ha tirato fuori una cassa da morto da sotto il letto e ci ha dato i fichi. Aveva la cassa da morto sotto il letto.
Li abbiamo presi, ma poi non li abbiamo mangiati, li abbiamo buttati via. Ciò, erano dentro una cassa da morto!
35:15 C’era qualche lavoretto là in paese?
Sì, hanno fatto un ponte su un fiume e noi con le gerle, con le ceste di legno poggiate sulla testa, si portava la terra.
- Anche voi bambine?
Sì, sì, tutti. Portavamo terra, pietre, materiale per il ponte.
- Così avete guadagnato qualcosa.
40 centesimi al giorno, gli uomini, e a noi, quello che rimaneva.
- Con quell’olio e acqua che facevate quelle gran pentolate, dentro ci mettevate un po’ di farina?
Non c’era niente! Niente. Acqua e olio, si mangiava, si beveva, come bere il caffè, il latte. Alla sera, a mezzogiorno.
Non le ho detto che ci avevano portato un sacco di riso? E le mie zie e mio zio [me barba] facevano bollire e buttavano via l’acqua, bollire e buttare via l’acqua: veniva tutta una papparella, e il riso continuava a sapere sempre di petrolio. […]
36:50 Mi chiamo Angela Salviato vedova Sforzin, nata il 28 settembre 1907; “sono nata sulle bonifiche e quando mi sono sposata sono andata a stare alle Case Bianche. Sulle bonifiche vicino al manufatto” […]. I miei lavoravano la terra per un padrone di cui non ricordo il nome.
Abitavamo in una bella casa in muratura, in otto fratelli, ma le cognate avevano dei cugini; in tutto eravamo trenta…
39:35 Dopo sposata sono andata a stare alle Case Bianche, ma prima abitavamo in una località chiamata Cascinelle, dove quella volta [di Caporetto] è arrivata l’acqua del Sile perché hanno tagliato l’argine, ed era proprio il momento dei raccolti; andò tutto sotto acqua e non si prese nessun rimborso.
[…]
41:12 Da profughi abbiamo tanto patito e in più abbiamo preso la spagnola, tutti, non solo io.
Sono arrivati i soldati che erano stati al fronte e ce l’hanno “attaccata”.
E quando siamo ritornati a casa, a lavorare qua, ci siamo presi la malaria.
- In cosa consisteva la malaria?
Febbre. Due ore di febbre alta, alta. A noi davano dei cioccolatini di chinino, e ai grandi davano chinino [puro], quelle piastrine rosse, là.
- Quanti cioccolatini vi davano?
Ce lo dicevano loro quanti mangiarne, perché era chinino, non erano mica cioccolatini. Avevano il gusto della cioccolata, ma era chinino, si doveva mangiarlo, masticarlo.
Non durava tante ore, ma due ore: la febbre a quaranta, e brividi, e freddo; ci si copriva…
L’abbiamo presa appena tornati a casa dal profugato.
- Tutti i morti che ha visto al ritorno, erano alle Cascinelle?
Sì, sì.  [43:20 fine cassetta] 


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