sabato 15 maggio 2010

Maria Cella, Rustigné di Piavon (TV)

Nata nel 1903 - Residente a Nervesa della Battaglia.

Nastro 1994/2 - Lato A                       9 marzo 1994
    
Sono nata il 26 luglio 1903 da Antonio e Zambon Caterina.
Mi ricordo che quando sono arrivati i tedeschi ci hanno detto di mettere fuori dalle finestre le lenzuola per fare un evviva.
Invece quando sono entrati sono andati dentro la cantina, hanno aperto le botti e si sono messi a bere il vino con i cappelli di ferro.
Era stato il prete in chiesa a dirci di mettere fuori le lenzuola per fare un evviva, perché non ci facessero niente.
Invece quando sono venuti dentro i a fàt un demonio. Erano austriaci, tedeschi, ungheresi.
Si sono piazzati in casa e in cucina e noi abbiamo dovuto andar fuori, improvvisare un focolare con un bastone e due tre pietre e farci un po' di minestra fuori nel campo. Ci avevano occupato il granaio e tutto. Noi si dormiva in stalla e loro in casa.
In famiglia eravamo 6 fratelli + altri cinque cugini figli dei miei zii (Cella Costanzo e Marchesin Luigia) che abitavano nella stessa casa. Inoltre c'erano i quattro genitori e il nonno Sante Cella.
I tedeschi si son presi tutte le bestie, le hanno ammazzate, se le sono mangiate e noi abbiamo dovuto partire e andare nel Friuli, a Orzano, un paese tra Udine e Cividale. 
Siamo rimasti a casa con i tedeschi ancora un mese, prima di andare a Orzano.
Per le bestie che si erano prese, i tedeschi non hanno rilasciato niente. Erano padroni loro, però non hanno fatto del male alle persone.
Dopo circa un mese ci hanno caricato su dei carri trainati da cavalli e ci hanno portato a Pordenone su un gran prato. Siamo partiti alla mattina e siamo arrivati verso sera, noi e tutte le famiglie della nostra frazione di Rustignè. Carri guidati da soldati.
In questo prato di Pordenone siamo rimasti fino alla mattina, coprendoci con quel po' di stracci che avevamo. Il guaio era che noi ci eravamo portati dietro un po' di farina e ce l'avevano rubata ... i nostri stessi compagni, non abbiamo mai saputo chi. Eravamo là tranquilli, poi abbiamo guardato e non abbiamo più visto la farina.
Alla mattina successiva ci hanno caricato su dei vagoni da bestiame.
La notte l'avevamo passata all'aperto, ma non pioveva. Non ricordo di preciso dove fosse questo prato.
Nei vagoni eravamo buttati là, seduti su quei pochi stracci che ci eravamo portati con noi.
A Orzano ci hanno sistemato nella canonica del paese e i friulani ci hanno portato da mangiare e la paglia per dormire. A noi ci hanno dato la canonica del prete forse perché eravamo una famiglia numerosa, con tanti figli. Nella canonica però non c'era niente, solo i muri e tanto freddo, tutto vuoto. Il prete era «in Italia» (noaltri se diséa). Pochi erano rimasti nelle famiglie del posto; erano uno due vecchi. Gli altri erano andati in Italia. E poi i friulani a volte ci dicevano che dovevamo andarci anche noi, in Italia.
In principio i friulani ci volevano anche bene, ci hanno portato la paglia per dormire, ci rispettavano. Ma c'erano di quelli invece, come c'è dappertutto... 
Noi avevamo queste due tre camere, abbiamo messo la paglia per terra e sistemati questi pochi stracci che si avevano. Abbiamo dormito là fin quando è finita la guerra. 
Mio nonno Sante, poverino, dormiva al primo piano della canonica, sulla paglia e "l'é mort pien de pedoci e mort da fame". È morto quando sono arrivati gli italiani, subito dopo la fine della guerra. Sono arrivati mio padre e gli zii ... e l'hanno visto.
Mio padre e i suoi fratelli erano rimasti in Italia. Mio padre non era militare, mentre i suoi due fratelli sì. Mio padre è stato militarizzato ed è arrivato a Orzano appena finita la guerra, e ha fatto in tempo di vedere suo padre morire, con i pidocchi e morto di fame.
Eravamo tutti pieni di pidocchi e morti di fame. 
Si andava in giro per i campi a cercare se si trovavano due tre fagioli, delle patate. Si mangiava un minestrone alle quattro e nel resto della giornata niente. Non c'era niente da mangiare, e il sale ci toccava andarlo a prendere lontano. Ce ne davano una croda e noi lo battevamo col martello: era una mia zia che era più esperta di mia madre e se lo andava a prendere, non so se a Udine o dove.
Niente carne, né formaggio ... niente, niente. Botteghe non ce n'erano, non c'era niente di niente in nessun posto. Era tutto consumato, i tedeschi erano rimasti là finché avevano mangiato tutto, e dopo quando avevano mangiato tutto e non ne trovavano altro erano partiti.
La gente del posto in qualche maniera tirava avanti. Avevano la vacca, il latte, avevano la patata, ma anche loro non se la passavano bene. Non c'era niente.
Noi poi si andava anche "a carità". Non io, perché essendo già grandicella andavo per le famiglie a far qualche lavoro, o sul campo a tagliare frumento ... intanto mangiavo, il latte o il formaggio. Andavo a lavorare per il mangiare.
Nessuno passava alle famiglie un sussidio, un aiuto. Niente, non ci hanno dato niente. Abbiamo vissuto sempre così. Si andava a carità, per le famiglie. Qualcosa ci davano; c'erano alcune famiglie che qualcosa ci davano, delle altre invece ci dicevano che dovevamo andare in Italia, profugat.
Degli undici fratelli e cugini tutti hanno preso la spagnola. Solo io non l'ho presa, e andavo a cercare per le famiglie qualche mezzo litro di latte da dare agli ammalati. Per fortuna tutti se la sono cavata. La spagnola era una febbre ... febbre, e stavano a letto, sulla paglia, con qualche goccetto di latte.
Tutti erano in un'unica camera grande, coperti con le coperte che si erano portati via da casa. Da casa ci eravamo portati via anche la calièra per la polenta. C'era il focolare, e per le legne andavamo in cerca di trovarle, un po' di qua un po' di là. Nelle stanze invece niente riscaldamento. [...] Attorno alla canonica c'era un bel muro e quando veniva fuori il sole i miei fratelli e cugini si disponevano tutti lungo la mura per scaldarsi al sole. Poi magari si riusciva a trovare un litro di latte da na banda [da una parte] e mezzo da un'altra. Allora lo si metteva via e si faceva il burro e quello doveva bastarci per tutta la famiglia, pensi lei di quante persone.
Pane non lo abbiamo mai visto. Si andava magari sui mulini a trovare un po' di farina e si mangiava così soprattutto la polenta. Solo la polenta e mio nonno diceva: «Non state girarla troppo, altrimenti fa tutte le croste e non ci resta più polenta, poi».
Quando si andava nei mulini, mi ricordo che andavo io e mio nonno con la carriola. Magari ci davano un pezzo di pinza, ogni tanto, e eravamo contenti e la portavamo a casa. Era fatta con la farina di polenta impastata con della zucca e batarìe. Perché anche loro ... dove andavano a bottega, che non c'era niente? Né da vestire né niente. I negozi erano vuoti. Tutto vuoto. Anche a Udine, tutto vuoto.
A Orzano c'erano dei soldati tedeschi... 
La nostra famiglia era sistemata nella canonica, davanti alla quale c'era una famiglia di contadini in cui erano alloggiati dei soldati e mi ricordo che una volta un soldato mi ha fatto avere una stecca di cioccolata - tramite un'altra persona - e io l'ho rimandata indietro perché avevo paura che poi venisse a trovarmi. Poi mi sono tanto pentita ... era un militare tedesco.
Finita la guerra, io da Orzano andavo a Udine a piedi, da sola, in un negozio a prendermi qualcosa, qualche scampolo per farmi un vestito, qualcosa. Andavo a piedi, questi dieci chilometri da Orzano a Udine, da sola ... quando vedo che mi sorpassa un ragazzo in bicicletta abitante in una casa di Orzano dove io andavo a prendermi il latte. Mi passa davanti ed era un sergente militare che era ritornato in licenza. Mi passa davanti e poi si ferma e abbiamo fatto un bel po' di strada insieme, a piedi. Poi quando io sono tornata a Rustigné ha continuato a scrivermi tanti espressi ed è venuto due volte a trovarmi (el l'é venuo do volte a trovarme). Ma io avevo ormai un altro moroso ... ma non era quello con cui poi mi sono sposata. Avevo tanti morosi. ["A iera bea me mama", interviene la figlia]
Siamo partiti da Rustigné in autunno e siamo tornati dopo aver fatto due inverni (1917-18 e 1918-19) a Orzano. Nella primavera del 1919 siamo tornati a casa, in questa casa di cui erano rimasto solo i muri. Infatti era stata bombardata, essendo a 6-7 km dal Piave. Anche tutte le altre case del paese erano rovinate. Tutto il paese era rovinato.
I soldati nella nostra casa avevano utilizzato la cucina per mettervi i cavalli e c'era il letame alto così. Senza balconi, senza porte.
Mio zio, mio padre e i miei zii hanno portato fuori tutto lo sporco, hanno pulito e siccome la casa non era nostra - eravamo in affitto, proprietario era uno da Piavon di cui non ricordo il nome - i miei hanno messo qualche trave per riuscire in qualche maniera a salire sulle camere. Tutto provvisorio; poi il proprietario della casa ha sistemato la stalla.
La terra era tutto un buco. C'erano resti di bombe ... non ho ricordi di bombe scoppiate in mano a qualcuno.
Un po' alla volta abbiamo pulito tutta la campagna in modo che siamo riusciti a seminare il granoturco nella primavera del '19.
Un po' alla volta è ripresa la vita normale, un po' alla volta il proprietario ha sistemato il granaio e la casa.

Mi sono sposata quando avevo 21 anni e sono rimasta un anno a Rustigné, poi ci siamo trasferiti a Nervesa dove avevamo trovato "una campagna".
Mi sono sposata con Ambrogio Pizzutto che era del posto, da Oderzo. 
A Nervesa siamo arrivati nel 1924. Dapprima su una campagna di 15 campi circa in località Sovilla, una bella campagna, con una bella casa che è ancora là. Poi siamo passati a Bidasio. Sempre come mezzadri, sia a Sovilla che a Bidasio. A Sovilla i padroni hanno venduto la campagna... 
Dopo essere rimasti a Bidasio per 7-8 anni siamo ritornati a Sovilla in un'altra campagna. Eravamo in 5 cognati, e dopo la seconda guerra molti sono emigrati a Milano, nessuno di loro è ancora a Nervesa. Anch'io ho un figlio, sposato, nel Milanese. Ormai la campagna non era sufficiente per tutti.
Mio marito è morto a 32 anni a causa di una ferita procuratagli da un toro (ne avevamo parecchi in stalla). Il toro era scappato, ha corso dietro a mio marito e lo ha sacagnà
Inoltre, subito dopo la guerra, mio marito aveva fatto il militare in Alta Slesia, in Germania, a tegnér bon ordine. E di un battaglione di soldati italiani ne sono rimasti solo trenta fra cui mio marito. Erano soldati di leva, mio marito era del 1901, e ritornato dall'Alta Slesia evidentemente aveva preso qualcosa di malattia. Si era indebolito.
Nel 1929 mi ricordo che ero incinta di Danilo e c'era un gran freddo. Ero "in stato", abitavamo a Sovilla e l'acqua non c'era. Bisognava bere quella del canale oppure si andava in piazza a Sovilla dove c'era una fontana a prendere l'acqua col bigol, e mi ricordo che c'era la neve alta così...

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