Visualizzazione post con etichetta Canapificio Veneto. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Canapificio Veneto. Mostra tutti i post

mercoledì 21 aprile 2010

Intervista a Maria Bresolin

Nata l'8 marzo 1909 a Pederobba (TV).

Nastro 1994/18 - Lato A                24 maggio 1994
    
Prima abitavo nella casa grande che c'è giù dagli scalini della chiesa di Pederobba, in centro paese.
Mi ricordo che ci hanno detto di scappare perché altrimenti ci avrebbero ammazzati tutti. Ricordo mia madre che ha detto: «Come faccio? Portarmi via tutti questi boce!» 
Eravamo in otto figli e in famiglia, tutti compresi eravamo in 48.
Siamo scappati e siamo andati a Bessica di Loria. Là ci hanno messo a dormire in una stalla in cui era stata stesa della bella paglia fresca, appena portata. Noi ci si siamo buttati giù ... e dove avremmo potuto distenderci altrimenti? E là ci siamo riempiti tutti di sterco, perché prima vi era passata una gran squadra di militari e vi aveva fatto i propri bisogni; poi erano stati ricoperti con la paglia e noi vi ci siamo distesi sopra ... e poi in qualche modo ci siamo puliti e cambiati.
Tutta la famiglia di 48 persone è partita con due carri, trainati da un cavallo e due buoi. Abbiamo caricato più che abbiamo potuto e il resto lo abbiamo lasciato a casa; abbiamo perso tutto.
Siamo partiti al mattino presto, era passato un militare ad avvertirci di partire; non so chi fosse.
Poco dopo essere partiti mia madre è tornata indietro perché si era dimenticata di prendere la macchina da cucire e in quello che stava per entrare nel grande cortile di casa, ha fatto appena in tempo di prendersi questa macchina da cucire che è capitata una bomba proprio in mezzo al cortile provocando un enorme buco.
Ci abbiamo messo un giorno ad arrivare a Bessica, via Crespano, da Pederobba. 
Mi ricordo che avevamo una zia (Teresa), poveretta, che rivolta a noi che eravamo tutti piccoli sotto i dieci anni, ci ha detto: «Bisogna che vi faccia un po' di caffè». «Si sì zia, fallo», le abbiamo detto. Ma ha sbagliato il vaso e invece di prendere caffè ha preso tabacco. È stata una cosa terribile e abbiamo dovuto essere portati tutti in ospedale; robe da crepare.
Siamo rimasti fermi giusto tre giorni a Bessica, e appena ci siamo ripresi siamo partiti. In ospedale ci hanno fatto vomitare tutto.
Ci siamo diretti verso Ferrara e ci siamo fermati là vicino, a Francoìn (Francolino), un paese appena di là del Po. Abbiamo camminato insieme ad altre famiglie, e noi boce ci facevano un poco stare caricati sul carro e un poco camminare a piedi come tutti gli altri.
A Francolino ci hanno sistemati abbastanza bene, su delle brandine piccole, magari in due su una, noi bambini. Tutte le persone della nostra famiglia sono rimaste insieme, nello stesso edificio.
Le nostre 48 persone componevano 8 nuclei familiari (8 fratelli, ciascuno con moglie e figli). Il capofamiglia era Giovanni Bresolin e la parona di casa sua moglie è morta giovane e io non l'ho conosciuta.
La famiglia non aveva nessun soprannome, solo Bresolin. Io invece ho sposato un Gianni (soprannominato Jane) e poco tempo fa sono venuti a trovarci dei signori i cui bisnonni di cognome Gianni erano emigrati alla fine del secolo scorso in Brasile. Da una ricerca sull'archivio parrocchiale avevano trovato che il fratello del loro bisnonno era partito a suo tempo per il Brasile.
Gli otto fratelli si chiamavano: Giacomo, il padre di Maria ... poi Beniamino, Nazareno, Angelo, Luigi [...]. Erano tutti contadini e lavoravano molta terra, non in proprietà ma in affitto a generi, non a soldi che non ce n'erano, sotto le Opere Pie (ospedale locale) e la Prebenda Parrocchiale. 
Coltivavamo di tutto, anche frutta e verdura, ad esempio ciliegie, meloni, frutta in quantità, uva americana e di tutto, granoturco e frumento, spagna (erba medica) per le bestie (10-12 in tutto).
Siamo partiti profughi con due carri assieme a tutte le famiglie del paese, via per la direzione Crespano e Bessica, ma poi un po' alla volta ci siamo divisi, le varie famiglie. Anche il parroco è partito.
Le case sono state tutte distrutte e poi noi al ritorno le abbiamo rappezzate in qualche modo, riuscendo a recuperarle, anche quelle molto vecchie.
A Francolino siamo rimasti fino alla fine della guerra mentre il mio futuro marito, sempre da Pederobba, lo hanno a Caccamo, in Sicilia. Si chiamava Gianni Giacomo e a Caccamo ha trovato anche da lavoricchiare presso la locale caserma dei carabinieri.
A Francolino invece aiutavamo le famiglie del luogo nei lavori dei campi, e qualcosa si prendeva. Si prendeva anche il sussidio.
Siamo stati sistemati in una casa di contadini di cui non ricordo il nome. Io non andava a scuola (ho fatto solo la prima elementare).
Come profughi eravamo trattati abbastanza bene. Non ho un ricordo particolarmente brutto. Avevamo trovato tutti posto in questa grande azienda.
Alla fine della guerra sono rientrati per primi gli uomini a sistemare le case. Quando anche noi siamo ritornati le case erano comunque tutte a pezzi, mezze tagliate, la chiesa rovinata, il paese rovinato.
Quando il resto della famiglia è rientrato in paese era passato molto tempo dalla fine della guerra.
Ho iniziato a lavorare subito dopo il ritorno, a dieci anni. Qua da Pederobba eravamo in 9 ragazze, me compresa, che si andava al Canapificio Veneto di Crocetta. Le altre mie compagne, paesane, dicevano «che pecà che me fa che a toséta...!», perché ero la più piccola di tutte. Mi ricordo che per abbreviare la strada si veniva giù lungo la Brentella. Io ero l'ultima del gruppo, perché ero la più piccola e andavo più piano. Una volta stavamo ritornando a casa, e io ero dietro ... ho perso uno zoccoletto, non scarpe, si pensi, ma zoccoli ... lungo questa Brentella (c'è la strada che porta su fino alla stazione). Dietro a me c'era un ubriaco, cioc desfà, che ha fatto per corrermi dietro; allora le altre ragazze mi incoraggiavano a correre più forte e a raggiungerle. Così ho perso lo zoccoletto perché lui lo ha preso e buttato in acqua e ho dovuto arrivare a casa con un piede scalzo.
Le altre ragazze che da Pederobba andavano a lavorare a Crocetta erano: Guadagnin Maria, le sorelle Busello Maria e ... , Guadagnin Maria un'altra e non parente della prima, Gina Bresolin detta Gira...
Ho trovato il posto in canapificio perché c'erano due ragazze già a servizio dal direttore del canapificio. Io ho domandato a loro di trovarmi un posto in fabbrica e loro lo hanno domandato al direttore che mi ha accettato.
Dormivamo dalle suore a Crocetta, vicino alla chiesa, durante la settimana e si tornava a casa al sabato di sera. Ero la più piccola della fabbrica, tanto che alle suore facevo pécà e allora ad ogni pasto mi mettevano da parte un frutto, così io me lo mangiavo al pomeriggio.
In fabbrica si facevano rochèi di canapa. Ci saranno state 2-300 persone, in gran parte ragazze, ma c'erano anche degli uomini.
Il direttore una volta mi ha messo in un posto, a spingere un carrello, manovrarlo di qua e di là. Una volta senza volerlo, ho investito col carrello il direttore che era dietro una curva. Avevo paura di essere licenziata e mi sono raccomandata col direttore di non esserlo, perché non avevo fatto apposta e oltretutto il direttore era piccolo e nella curva io non l'avevo visto...
Il lavoro era faticoso e io era stata messa nella «sala gèmi» [gomitoli] dove si prendeva meno di tutti perché era come il lavoro di apprendisti... 
Allora io mi sono licenziata e sono andata a servizio per sei anni a Venezia, in piazza San Marco nella famiglia Benvenuti (c'erano una mamma e una figlia da sole con la figlia da sposare). Poi sono andata a Roma per altri sei anni e fino a venti giorni prima di sposarmi, mi sono sposata a 25 anni. A Roma ho lavorato in un convitto dell'Università Gregoriana, retto da suore. Noi - eravamo una squadra di ragazze - servivamo da mangiare.
Poi in questa Università ci sono andati anche tre miei figli a lavorare Giovanni, Claudio e Angelo. Anch'io ho nove figli, e due morti che fanno 11.
Nella seconda guerra andavo a portare da mangiare ai partigiani fino in Grappa e non ho mai avuto problemi, non sono mai stata presa.
I partigiani erano tutti ragazzi del paese, la maggior parte, che non avevano voluto fare il militare e noi gli si portava quello che veniva dalla campagna.
Interviene il figlio. Anche allora c'erano partigiani e partigiani. Da come me la raccontava mio padre non è come la raccontano certi altri e anche la televisione; qua cercavano di salvare quel poco che c'era da salvare: la pelle propria e il paese.
I tedeschi hanno bruciato il forno di Guadagnin Guido detto Cincin a Pederobba, che allora si trovava sulla strada che va su alla colonia. Era il forno che serviva a tutto il paese. Anche adesso in paese, ma in un altro posto lungo la strada principale, c'è ancora il forno degli eredi.

Da profughi, ci è arrivato un telegramma che annunciava che era morto il cognato Giuseppe Gianni a causa di una polmonite; era militare e poi è morto a Pisa.
Da profughi stavamo abbastanza bene, non ci siamo ammalati e non abbiamo preso la spagnola.

Ci spostiamo fuori casa. Osservo gli edifici del piccolo borgo, in pietra. Alcuni con pietra rossa... 

Ad esempio nella nostra casa il pezzo ricostruito dopo la guerra è in pietra rossa, mentre quello più antico è in sassi del Piave e altre pietre. Anche il campanile - nuovo - di Pederobba è costruito con tutte pietre portate giù dalla montagna co a mussa de legn [una specie di slitta trainata a mano - con due maniglie - da due uomini posti ai due lati del 'timone'; in famiglia hanno la foto].
Una volta avevamo tante ciliegie, sulle rive lungo i campi qua vicino, e le vendevamo. Poi, ultimamente, appena venivano alcune gocce di pioggia si spaccavano tutte e allora abbiamo levato gli alberi perché non le voleva più nessuno. All'epoca si vendevano soprattutto al mercato di Montebelluna, dove erano portate con carretta e cavallo. Ne avevamo di quelle file [di ciliegi] che facevano voglia! e non gli si faceva alcun trattamento.
Io ho avuto 11 figli, uno ogni anno, e mi passavano il latte artificiale. Non posso dire altro che bene di Mussolini!. Mi hanno sempre passato il latte; il mio non bastava perché andavo a darlo anche agli altri, facevo la balia...

Nastro 1994/10 - Lato B (ritorno per precisazioni il 2 giugno 1994)

Residuati bellici della prima guerra, anche adesso se ne trovano. Si sentono a volte dei colpi ... sopra la colonia c'è una valle e là quando trovano queste bombe le fanno sparare.
C'erano molti ricoveri nella montagna.
Un po' tutti nel paese si arrangiavano a raccogliere residuati.
Interviene il figlio. Io mi ricordo che fino a trent'anni fa venivano per le case a prendere su tutto, anche la pelle degli animali. Noi dopo un gran temporale si andava su nelle valli e là si trovavano cartucce, baéte de pionbo, bombe, e poi le si vendeva.
Su da noi Bresolin, dice Maria, sulla nostra terra in montagna che si chiama Farnède - sarà 2-300 metri da qua in linea d'aria, verso il Monfenera - là c'erano due tre ricoveri dove andavano dentro i soldati. Ora è pericoloso entrarci. Sono fatti bene, in sè, tutta roccia, ad arco ... 
Da boce si andava dentro [interviene il figlio] ... ce n'erano moltissimi di ricoveri, su di qua, fatti ad arco, si inoltravano anche 40-50 metri nella montagna. Là i soldati dormivano e i contadini poi li utilizzavano come "frigorifero", nel senso che d'estate quando andavano in montagna a lavorare vi mettevano al fresco l'acqua e la roba da mangiare.

Nastro 1994-22                     Lato A

Aggiunte e precisazioni, 2 giugno 1994

Maria non ricorda in che ospedale sono andati, quella volta del tabacco...
A Francolino sono arrivati sempre con le loro bestie, poi non sa che fine abbiano fatto, certo non le hanno più riportate a casa.
Durante il viaggio loro piccoli si davano il turno sul carro, «se ghe faséa pecà». Un mio cugino aveva e buànse (i geloni) e allora si davano il turno...
La nonna si chiamava Luigia [...]
Il figlio della sig.a Maria che interveniva l'altra volta si chiama Claudio ed è senza una gamba (persa in un incidente in moto) [...]
A Francolino non ricorda il nome della famiglia in cui erano ospitati. Erano in sei-sette in una stalla; tre quattro in un'altra famiglia; altri tre quattro in un'altra ancora «e mia zia che non aveva figli (la zia Teresa) ci "dirigeva", sorvegliava un po' tutti passando a vederci. Ha sbagliato però a fare il caffè; caffè e tabacco erano in due vasi uguali e si vede che sbadatamente lei nella confusione ... e per poco crepavamo tutti».
Le ragazze con cui andava al Canapificio erano: Busnello Maria (ora in Australia), Guadagnin Maria, Bresolin Gina e Rina, Giason Maria e Giason Isetta (erano le due ragazze che trovarono il posto a lei). Lei rimase un anno e mezzo al canapificio... «ma prendevo troppo poco, ero senza mamma. Mi ricordo che ero in stabilimento e sono venuti a chiamarmi quando stava per morire e mio santolo [padrino] mi ha portato su con cavallo e carrozza. Sono andata di corsa in ospedale e mia mamma non ha fatto in tempo a far altro che prendermi con una mano così e dire «basta, go caro de verte vist». Si chiamava Maria (Marietta) Parisotto ed è morta partorendo un figlio che è sopravvissuto 40 giorni, accudito da mia zia senza figli. Il dottore l'aveva avvertita, non lusingatevi, non vive. È nato in mezzo a un'emorragia e dopo 40 giorni, una mattina - dopo che io e una mia sorella più vecchia che adesso è morta eravamo state una per parte ai lati di questo bambino tutta la notte, perché mia zia aveva bisogno di riposarsi - alla mattina lo abbiamo trovato freddo. Non le dico cosa abbiamo provato... Gli avevamo già dato il nome di Giovanni».
Veniva allattato con latte di casa, avevano bestie.
Latte ne portavano anche in latteria, quella che c'era a metà stradone per andare in colonia e ora non c'è più.

In questa colonia io sono andata a servire anche là, dopo sposata. Andavo a rifare tutti i materassi. Eravamo in dodici ragazze a servire (per 160-170 boce che venivano tutto l'anno, ma d'estate ancora di più); e io alla sera, prima di andare a casa, a volte, mi portavo a casa i materassi.
Io tiravo fuori la crine, oppure la lana, e li facevo oppure li rifacevo. Ho sempre lavorato con i materassi, fino a ieri l'altro! e ancora lavoro. La macchina l'ho comperata a Possagno; si aveva amicizia con un vecchiotto che ormai non lavorava più, e da quella volta uso sempre quella. Invece la mia tósa se ne è fatta fare una uguale ma elettrica e mentre io ci metto tre ore a fare un materasso (perché sono 12-13 kg), lei in 5 minuti lo fa fuori. "Far fora" la lana infeltrita, ingrumàa dopo anni di uso.
Iniziavo alle 4 del mattino fuori nel cortile. Lasciavo un giorno al sole la lana e poi la rimettevo nel materasso, così perdeva l'odore e la polvere. 
Ne ho mangiata della polvere io! E adesso è mia figlia che lavora per tutti (aiuta anche nel campo sportivo, la festa dei boce); lei usa la macchina elettrica.
Io sono rimasta a servire per sette anni a Venezia. Avevo conosciuto anche un altro ragazzo, anche più ricco, ma mi sono innamorata di questo e ho lasciato l'altro. Lo avevo conosciuto qua in paese e lo incontravo una volta al mese quando avevo il giorno libero. A me andava bene così.
Ho lasciato la famiglia di Venezia 20 giorni prima di sposarmi. Mi volevano bene come papà e mamma. Poi ne ho trovata un'altra di Treviso, in piazza Duomo: la signora Benvenuti Elisabetta che aveva 90 anni.
Di tutti questi lavori fatti non ho preso neanche un contributo pensione.
È capitato che dovevo andare a trovare i figli in Canadà e proprio all'ultimo giorno ho preso 400 mila lire che avanzavo dall'ospedale di Montebelluna.
Lavoravo sia per privati che per enti.
Sono andata in Canada con l'aereo ... e andrei via anche adesso.
Ha avuto 11 figli di cui 9 vivi. Tre figli sono in Canadà: Leone, Giovanni, Luigia (Ginetta). Sono stati qua tutti e tre quest'estate; abitano a Toronto, Ontario.
Ora prendo la sola pensione dei contadini. Non sono mai stata in regola neppure all'Università Gregoriana di Roma.
Solo a Crocetta nello stabilimento ho preso le marchette; solo che prendevo poco e poi i miei fratelli più piccoli - che non sapevano cosa fossero questi bollini - li hanno distrutti tutti, così ho perso tutto.
Mio marito Giacomo era partigiano. Erano in tanti qua a Pederobba, che nessuno sa quanti. Erano scappati; anche qua in casa ce n'era uno che si era nascosto due ore prima  - scappando in montagna anche quello - e poi sono venuti i carabinieri a cercarlo ma lui era già scappato in montagna. Nessuno di loro è morto, in montagna.
Sono andata anche a far la balia: mia zia mi diceva sempre che avevo un secèr (secchiaio) di latte. Sono andata a dar da mangiare alla figlia del direttore dell'ospedale e al figlio di un altro impiegato sempre dell'ospedale. Quando andavo su (dopo che avevo dato il latte ai miei), all'ospedale mi dicevano a volte che il loro bambino aveva appena preso sonno. Allora io dicevo che sarei tornata a casa, così loro mi preparavano la pastasciutta, il burro. Io mi levavo il latte ... e in un attimo che mettevo la mano tutti i dottori mi guardavano e mi dicevano «ma guarda che roba...!» e in un attimo ne veniva fuori un tazzina e la mettevano via per quando la bambina si sarebbe svegliata. [...] Non c'era nessun'altra donna in paese che faceva quel mestiere. Non prendevo soldi, comunque, ma solo roba da mangiare, in abbondanza, 'na vera grassia del Signor.
Lo stesso succedeva con le dodici ragazze che lavoravano in colonia e che erano "delicate" sul mangiare e spesso lasciavano là la roba. Allora io, col permesso della superiora, passavo e portavo a casa tutto quello che era rimasto. A casa avevo chi avrebbe fatto festa: i bambini li trovavo tutti in riga che mi aspettavano che tornassi.
Mi è morto un bambino di 40 giorni da un colpo di tosse pagana [t. cattiva, pertosse], e si può dire che ne sia morto uno per ogni porta, a Pederobba; e una bambina è morta di polmonite fredda, senza febbre. [...] 

giovedì 4 marzo 2010

Intervista ad Antonia Berti

http://Nata il 20 maggio 1900 a Fontigo di Sernaglia della Battaglia (TV). 
Residente a Fontigo.
Nastro 1994/30 - Lato A    [Sulla cassetta originale da 23:19 a 45:15]       22 agosto 1994
Da profuga sono andata a finire in Slavonia, dove fanno la guerra adesso. Dapprima sono andata profuga a Cappella Maggiore, dopo ci hanno chiesto chi voleva andare a lavorare in Slavonia e allora siamo partiti tutta la famiglia, e là siamo stati bene, eravamo a lavorare in una fabbrica di cemento. Poi quando è finita la guerra ci hanno mandati a casa...
01:38 Il paese in cui eravamo a vivere era Beočin mentre a lavorare eravamo a Ovidek (?) [se ampie informazioni sono recuperabili in rete su Beočin, niente invece sono riuscito a trovare su quest'ultima località]  ... erano due paesi là vicino. In qualche maniera riuscivamo a capirci con la gente del posto; c'erano anche tanti prigionieri italiani.
02:25 Io sono del 1900, leggo il giornale, ascolto la radio ... ma ormai non ci vedo più e ho gli occhi che mi fanno male.[...]
Abitavo a Fontigo nella piazza... 
03:33 ... andavo a lavorare nel Canapificio Veneto di Crocetta. Stavo là tutta la settimana: si tornava a casa al sabato e alla domenica si tornava a partire. Sempre a piedi. Eravamo un gruppo di ragazze qua del paese.
In famiglia eravamo sette fratelli più mio padre e mia madre ... il fratello più vecchio (Girolamo) era soldato...
Io sono sposata e ho avuto due figli, mio marito è morto...
05:42 Qua a Fontigo ci hanno portato via tutto ... quando siamo tornati siamo andati dentro alle scuole, l'unico posto dove non pioveva ... tutto il resto era "tratto giù" tutto. Poi ci hanno messo una baracca e quando ci siamo sposati siamo venuti in questa casa ... mi sono sposata nel 1923.
06:59 Dopo quanto tempo che eravate a Cappella Maggiore siete andati in Slavonia?
A Cappella Maggiore siamo stati poco, perché non si trovava niente, anche «andando a carità» non si trovava più niente. Allora quando siamo venuti a sapere che servivano delle "opere" per andare a lavorare in Slavonia siamo partiti, in cinque dei sette fratelli (una mia sorella - Giovanna - era infatti rimasta a Chioggia, a servire) e un mio fratello (Girolamo) era soldato di là del Piave...
In Slavonia siamo andati in treno e là ci siamo trovati bene. Eravamo sistemati in una casa. Lavoravamo ... chi nei campi e chi in fabbrica. I più grandi (mio padre, mia madre e me), in fabbrica…
09:55 In fabbrica c'erano le macine e io trasportavo i carrelli per buttarli giù, che altri ne prendevano il contenuto ... I carrelli erano pieni di cemento e io dovevo spingerli da un'altra parte, sempre là in fabbrica ... e poi li si buttava giù per un buco e li tornavano a lavorare... 
C'erano tante persone in fabbrica, anche del posto.
11:29 Il lavoro non era particolarmente faticoso e si prendeva abbastanza bene.
A Cappella Maggiore non si aveva niente, nessuno. Eravamo partiti da casa senza niente, avevamo seppellito la roba dentro le case, ma loro, i tedeschi, hanno tirato fuori tutto, trovato tutto... sono stati i tedeschi; del paese non era rimasto nessuno.
Siamo partiti per Cappella con un cavallo ... era di [pomeriggio ... non ricorda con precisione] e non pioveva.
13:57 A Cappella abbiamo trovato posto in canonica assieme a un'altra famiglia. Per mangiare si andava sempre «a carità giù per le basse» per trovare qualcosa, ma si trovava quel che si trovava. È per quello che siamo andati in Slavonia...
Mio padre qualcosa si dava da fare per lavorare, quando eravamo a Cappella... io (noi) andavamo a carità e magari una branchéta di farina o un tochét de pan si portava a casa. Non è che gli abitanti del posto ci trattassero male, eravamo italiani ... solo che non c'era più niente neanche là ... i tedeschi avevano portato via tutto.
Non ricordo in che periodo siamo andati in Slavonia. Siamo andati in treno e non ci abbiamo messo tanto ... quando il treno si fermava ci davano da mangiare, sì, si era trattati bene. In Slavonia abbiamo trovato anche dei prigionieri italiani ... (non però nelle stesse case)...

Da due anni ho perso tanto la mente ... le mani sono impedite ormai ... gli occhi ci vedono poco.Hanno detto che sono la più vecchia di Fontigo... 

18:37 Eravamo proprio nella zona in cui adesso fanno guerra quelli della Jugoslavia. 
Siamo stati anche a Budapest. Ci hanno chiamati a fare un pranzo, ci hanno invitato. Eravamo trattati bene ... 
Siamo partiti da Cappella proprio per quello, perché a Cappella non si trovava più niente ormai... per quello siamo andati in Slavonia
19:54 In Slavonia c'era da mangiare, altro che da vestire non ne avevano, perché andavano via con una camicia di carta, sì, di carta. Era un paese di pianura e vicino vi scorreva il Donao (Danubio), un grande fiume ... nella campagna c'era di tutto: patate, viti di quelle piccole, granoturco...

Da due anni, da quando non sono più andata a messa ho perso molto la memoria, e anche le gambe ... e non vado più fuori ... non ho compagnia ... non vado più fuori neppure da casa.

Nastro 1994/29 - Lato B         Aggiunte e precisazioni, 15 settembre 1994  [Sulla cassetta originale da 01:57 a 24:05]
22:05 Mio marito era De Luca Augusto e mi sono sposata nel 1923. Ho avuto 2 figli: Orlando e Martina.
Mio padre si chiamava Giovanbattista e la mamma Monica Sfoggia (Sfòia).
Da Fontigo a Cappella Maggiore ci hanno portato i tedeschi con i muli ... e quando siamo partiti era un pezzo che eravamo sotto i tedeschi. 
23:21 Un giorno (gli italiani) hanno lanciato uno sdrapnel sul cortile, che non ha fatto danni, ma ci siamo decisi a partire. Il parroco era già partito, ed era a Revìne a casa sua dove abitava. Tutti erano ormai andati via ... noi siamo partiti fra gli ultimi ... ognuno è partito per conto proprio, non siamo andati via tutto il paese assieme.
A Cappella siamo stati sistemati in canonica assieme ad una famiglia di Moriago, ma non ne ricordo il nome.
25:03 A Beočin lavoravamo in una fabbrica grande; io lavoravo al primo piano e dal piano terra mi mandavano su i carrelli pieni di cemento e facevo un lungo tratto spingendo questi carrelli sulle rotaie e dopo li rovesciavo su un buco in modo che andassero sotto, e l'operazione la facevo da sola (malgrado il carrello pesasse). Sotto lavoravano ancora il cemento, ma io non so cosa facessero... 
26:35 Appena arrivati in Slavonia ci hanno messo a cavar patate e dopo ci hanno messo in fabbrica. Avevano delle grandi estensioni di patate. C'era il Danubio poco distante.
Noi civili eravamo ben visti, non altrettanto i prigionieri italiani, che alla fine (ritornando a casa) ci hanno insegnato a noi una canzone:

     finalmente è finita la guerra
     che l'Europa l'ha ben disegnata,
     siam tornati con i calli per terra
     è terminato il nostro soffrir
     per quattro giorni ci lasci ...
     con un rancio rifiuto dei cani
     ci trattasti al par d'animali
     maledetta sta razza brutal ...

[Il testo completo di questa canzone, raccolta dal Gruppo Padano di Piadena all'osteria di Bizzolano, inf. Egidio Broglio (Gigio) ed Ermes Rossi, si può leggere e ascoltare — marzo 2010 — a questo indirizzo. Incisione Gruppo padano di Piadena: I giorni cantati ]

29:00 Ai tedeschi questa canzone non andava bene, noi l'abbiamo cantata venendo a casa e loro ci hanno fatto scendere giù dal treno. Poi ci hanno ripreso di nuovo sul treno.
Per venire a casa ci avevano fatto una lista di chi doveva partire, in modo che quando si scendeva alle stazioni si aveva il pranzo preparato.
30:26 Quando eravamo là, noi italiani cantavamo le nostre canzoni e gli abitanti del posto per quello ci volevano bene. È per quello che ci hanno chiamato sulla mensa degli ufficiali ... e loro se la godevano. 
Eravamo noi della nostra famiglia che eravamo bravi a cantare, tutti, anch'io avevo una bella voce [non ricorda il titolo delle canzoni che cantavano]; mia madre in particolare era molto brava a cantare.
Là in Slavonia andavamo anche a messa, anche se io non capivo la lingua.
32:19 Come vi trattavano?
Bene, bene ci trattavano...
Alla mensa degli ufficiali siamo stati chiamati una volta, a Budapest, per cantare.
33:30 Le ragazze del posto ... una mi faceva dispetti, appena arrivata là, finché anch'io l'ho spintonata, e dopo quella volta è diventata un po' più calma. Mi cambiava il binario quando dovevo passare col carrello. Una volta due ho sopportato, finché una bella volta l'ho presa, l'ho spinta, le ho dato una sberla e mi son fatta valere...
I ragazzi del luogo parlavano male l'italiano e non si facevano capire, ma non ci facevano dispetti... la ragazza sì che mi faceva dispetti!
Ci pagavano con soldi di carta, corone, e con quello ci compravamo da mangiare.

A Sernaglia c'è una signora che ha due anni più di me: me l'ha detto il mio dottore, e abita vicino alla chiesa.

36:43 A Cappella Maggiore la canonica era vuota, il prete non c'era e dicevano che l'avevano mandato via, non so perché, e così hanno messo le nostre due famiglie di profughi: una di Moriago e noi.
In Slavonia siamo andati che era estate (in questa stagione) e siamo venuti a casa quando finì la guerra. 
37:42 Adesso mi è venuto in mente quando siamo andati in Slavonia: c'era il granoturco che cominciava a maturare ... vero, di questa stagione siamo andati via ... e quando siamo arrivati avevano le patate da raccogliere, e noi siamo andati a raccoglierle. 
Mia sorella Maria, (quattro anni meno di me, ancora viva) è andata a rubare un grappolo d'uva. Gli abitanti del posto l'hanno presa e portata su e giù per il paese con il fucile puntato e lei col grappolo d'uva in mano. Era uva nera che cresceva su viti piccole e basse. Mia sorella piangeva, poi l'hanno lasciata libera e non è più andata a rubare uva.
Nel complesso però eravamo ben visti, ci davano da mangiare, da lavorare e qualcosa anche ci pagavano. 
I prigionieri erano dispersi, un po' da una parte un po' da un'altra. Erano soprattutto di là dell'acqua, del Danubio.
Mio fratello Fiorano si è ammalato di tifo ed è stato ricoverato e un prigioniero italiano portava sempre le notizie sul suo conto a mia madre; un'altra sorella (sempre Maria) si è ammalata di malaria mentre io qua a Cappella Maggiore mi ero ammalata di itterizia (le terissie); dopo però sono stata sempre bene.
Siamo arrivati a casa tutti ... ma due erano di là, in Italia, di là del Piave: mio fratello Girolamo (Momi) era soldato, e la Giovanna a Chioggia.

Questo occhio ho paura di averlo perso...ma  mi faccio da mangiare da sola, e per il resto vengono altre persone a farmi tutti i mestieri. [...]
                                                                                                                           

mercoledì 3 marzo 2010

Intervista ad Augusta Bellò


Nata a Covolo di Pederobba (TV) il 4 marzo 1905. Residente a Crocetta del Montello. 
Nastro 1994/17 - Lato A            21 maggio 1994 
Convenevoli...
00:35 Ho iniziato a lavorare  a 12 anni, il giorno dopo che li avevo compiuti, perché eravamo tre orfani … e sono andata in fabbrica — all'epoca ci assumevano a quell'età — nello "Stabilimento", di Crocetta, il Canapificio Veneto. Eravamo in molti, lo stabilimento era grande, il padrone era Antonini Ceresa. 
Siamo scappati il 9 di novembre … Noi abitavamo sulla strada di Cornuda, e siamo andati ad Altivole. Siamo partiti con le bestie e il carro, e credevamo di star via tre giorni (che poi sarebbe finita la guerra), perciò abbiamo lasciato tutta la roba da vestire a casa. Sul carro abbiamo messo un po' di pomi e roba da mangiare, e abbiamo lasciato la casa piena del resto
02:44 Eravamo tre sorelle, mia madre Bonetto Antonia (mio padre Enrico Bellò era morto ... non conosco l'origine del suo cognome) … in tutto 11-12 persone (c'era anche mia zia). […]
04:23 Chi vi ha detto di partire?
Sono stati i soldati nostri italiani a farci andar via… perché i todeschi ormai erano al ponte del Piave, e i soldati sono venuti a dirci «presto presto, che domani fanno saltare il ponte di Vidor,  e i todeschi vengono di qua». 
Io ero piccola e mi pareva impossibile … ma dicevano che saremmo stati via per tre giorni solo, e per tre giorni eravamo anche disposti a star via abbastanza rassegnati. Non si pensava che sarebbe stata una guerra così, nessuno.
Ci hanno svegliato di notte i soldati nostri, dicendoci che ormai stavano arrivando i todeschi,  e alla mattina via di corsa, svelti svelti. 
05:31 E mentre noi scappavamo si incontravano tutti questi soldati, erano tutti a piedi. Loro salivano verso il Piave e noi si andava giù con il carro e le bestie, camminando a piedi perché nel carro c'era un po' di farina e poca roba da vestire. Il carro lo conducevano quelli dell'altra famiglia Bellò (Angelo, che era morto anche lui) e che viveva nella stessa nostra casa ed era stato attaccato alle bestie da mia zia, la vedova di Angelo. 
06:41 I due uomini di casa (mio papà e mio zio) erano morti giovani, di malattia, di tifo e di polmonite. Mio padre aveva 33 anni, era un bell'uomo … gli è venuta la polmonite, ed è morto in 8 giorni. Lavorava in fabbrica, era un operaio quasi capo… Lo zio Angelo invece è morto ancor prima, di una malattia… 
Un mio cugino, dopo che già eravamo arrivati ad Altivole, ha voluto tornare a casa ed è rimasto ucciso dalle bombe dei tedeschi. Si chiamava Giuseppe e aveva 16-17 anni. 
07:50 Era tornato a casa sua con le bestie a prendersi qualcosa, come aveva già fatto una volta. Era assieme a un altro … e quell'altro lo ha riportato ad Altivole con il carro, morto. A noi non l'hanno neanche fatto vedere.
La famiglia della zia era di tre maschi e tre femmine e con loro sono scappati anche i nonni.
Al ritorno dopo la guerra la casa era ancora in piedi, ma senza porte, con le coperte messe al posto delle porte … senza balconi. Ci siamo rimasti un po' di tempo ma poi abbiamo dovuto andarcene perché era impraticabile e inoltre non era nostra…
Quando siamo tornate a casa io e mia madre siamo andate a lavorare in fabbrica, e a forza di chiederlo ci hanno dato una casa in affitto, della ditta… 
I padroni della nostra casa di Covolo erano i Tenderini di Cornuda, e per ricostruirla aspettavano i soldi dei danni di guerra… 
10:14 Siamo scappati con un solo carro e due sole bestie; le altre bestie le abbiamo lasciate a casa e i soldati le hanno ammazzate e noi non abbiamo preso niente… 
Di mestiere si lavorava "in stabilimento", un po' tutti … ma avevamo anche la casa e un po' di terra a mezzadria, sotto Tenderini. 
Abitavamo sul confine per andare a Covolo. C'è una strada che va diretta a Cornuda e noi eravamo esattamente a metà strada fra Cornuda e Covolo. Però la strada lungo cui abitavamo era quella che veniva diretta dal Piave. 
Eravamo in campagna, in mezzo ai campi, ed era molto lunga per andare in stabilimento a lavorare … tutta strada che si faceva a piedi e con le galosséte con i chiodi sotto (e broche) … mi pare impossibile!
Abitavamo in comune di Pederobba, però quando si moriva si veniva portati a Covolo, e per andare in chiesa e battezzarsi si andava a Cornuda. Si era proprio sul confine. A scuola si andava a Levada e all'asilo ad Onigo, ma che lunga era! E noi ci siamo andati e sempre con le galosséte … 
13:04 Siamo partiti al mattino presto, erano venuti a svegliarci alle 4, e camminando siamo arrivati ad Altivole. Sul carro c'era solo la nonna vecchia. Quando siamo arrivati ad Altivole ci siamo fermati su una casa e ai padroni di casa, vedendo queste bambine … gli abbiamo fatto come pecà (pena). Solo che tutte le case erano piene di soldati e ci hanno dato una stanza sola. Allora noi bambine a dormire sotto il letto, mia nonna e quelli più vecchi (la zia e la mamma) sopra i letti. Non le dico cosa abbiamo passato! 
C'erano tutti inglesi allora: loro erano anche contenti, ci davano cioccolata.
14:20 C'erano scozzesi con le gonnelline tutte piegate; a noi bambine volevano molto bene e ci davano di tutto, e allora anche noi cantavamo… 
Siamo partiti in novembre e siamo rimasti ad Altivole fino all'aprile dell'anno successivo … quando siamo andati dalle parti di Sondrio dove avevamo uno zio, che ci ha chiamato nel suo paese. 
Sulla casa di Altivole c'eravamo solo noi come famiglie di profughi … ma era piena di soldati e si dormiva per terra sopra un po' di stracci.
Mentre scappavamo, a novembre, incontravamo soldati che andavano verso il Piave, tutti a piedi con questi zaini, poverini … e noi si camminava e non ci pareva neanche vero di vedere i soldati ... pensi, a 12 anni! 
16:35 Ad aprile [1918] nessuno vi ha mandato via... 
No, no. Siamo andati noi da questo zio che ci aveva chiamati a Teglio, in provincia di Sondrio, vicino alla frontiera con la Svizzera. Lo zio si chiamava Giuseppe Bellò ed era guardia di finanza in pensione, e là ci ha trovato un posto. Solo che non avevamo niente ... e neppure l'acqua si poteva bere tanto perché faceva venire un gozzo così. Era un'acqua pesante, in paese [a Teglio] erano tutti col gozzo … e noi non si voleva bere quell'acqua perché si aveva paura di prendere il gozzo anche noi. Era proprio l'acqua pesante ... c'erano tutte montagne vicino alla Svizzera.
18:26 Noi bambine andavamo a prendere legna sul bosco per fare fuoco. Mia madre aveva trovato un posto a Tirano per andare a servire e ha lasciato le tre toséte con la zia… 
Per la legna si andava sulla montagna con il permesso del Comune; si prendeva solo roba secca e si facevano queste fascinotte che poi me le mettevano sulle spalle in modo di poterle portare a casa… 
Eravamo solo noi due famiglie di profughi in quel paese, però abbiamo trovato delle persone che ci volevano bene.
19:43 Io ho trovato una amica che mi voleva bene come a una sorella e mi portava il ben di dio da mangiare; si chiamava Angelina. E fra quello che ci passava lei e quello che ci passava il governo noi eravamo contenti, non siamo morti di fame! 
Ma una mia sorella di dieci anni  è morta da profuga e siamo ritornate solo in due a casa. E a casa, dopo un anno, è morta anche l'altra sorella Enrichetta perché aveva preso le arie cattive. Le hanno ingessato la gamba, è andata avanti un anno e poi è morta di meningite a Montebelluna. Dapprima le era venuto un mal di gambe che non riusciva più a camminare… 
La sorella Carolina, morta a Teglio, è stata seppellita in una buca grande, con una cassa. E quanta strada da dove noi abitavamo fino a quel cimitero. Era lunga, e che ambiente! Non mi pareva più di essere a questo mondo, di esser qua in Italia … eppure par impossibile che ogni paese abbia altri modi, altre usanze.
22:35 Gli abitanti del posto erano tutti buoni, loro, ma tutti montagnèr … proprio in mezzo alle montagne, con questi gozzi. Avevano le camice da cui spuntava fuori il gozzo, e noi avevamo anche paura e non bevevamo l'acqua perché dicevano che ... era l'acqua pesante e allora si beveva poco. Erano presi male, insomma, non parevano neanche nostrani, non si vedeva l'ora di venire a casa, noi… 
Mia amica aveva il forno, faceva il pane e lo vendeva, aveva anche un negozio e non aveva il gozzo. Mi voleva proprio bene e mi portava da mangiare… 
Mia sorella è morta di malaria... no... di spagnola. [Non è chiaro a quale sorella si riferisca].
24:55 Appena è finita la guerra non si vedeva l'ora di tornare a casa e siamo ritornati  subito … ma era tutta rovinata. Abbiamo messo delle coperte per fare la porta … il tetto, ancora ancora, manco male … ma la casa era senza porte. Ma noi contenti lo stesso, pur di essere a casa nostra. 
Eravamo proprio in mezzo alla campagna, non c'era nessuno vicino, non c'erano fontane e per prendere un po' d'acqua da bere ci toccava fare un mucchio di strada. Si andava sul canale della Brentella, la Brantelona, e là andavamo sempre, anche prima della guerra. Avevamo un pozzo ma c'era l'acqua solo se pioveva, altrimenti via alla Brentella col bigòl … e c'era tanta strada da fare, come da qua [dove siamo ora] ai "Ponti Romani"..
L'acqua della Brentella era comunque bella, sana, non si prendevano malattie… 
27:05 In linea d'aria la nostra casa sarà stata neppure tre chilometri dal Piave.
La nostra casa era rimasta in piedi anche se dentro non c'era più niente… avevano portato via tutto, spaccato tutto ...  e Dio ha fatto che piano piano siamo andati in fabbrica, io e anche mia mamma, e poi con l'andar del tempo il padrone ci ha dato una casa. 
Non ho ricordi che sulla terra ci fossero tracce di battaglia, pallottole, morti, ecc… non ci fu bisogno di grandi sistemazioni. Gli alberi erano in piedi… 
28:20 Cosa (che lavoro) faceva, nello Stabilimento?
Si lavorava el canevo (la canapa) da cui veniva fuori il filo, lo spago... [Saluta un familiare]
In stabilimento arrivavano delle grosse balle. C'era una sala in cui le lavoravano, c'erano le macchine [...] insomma andava a finire che facevano spago. Dallo spago si passava alla gomitolatura, dove facevano i gomitoli.
Ho lavorato tanto io, era bello… c'erano delle macchine, era abbastanza rumoroso ma non proprio [insopportabile]. C'erano varie macchine, filatura [...] aspatura per le matasse, gomitolatura per i gomitoli… 
Ora abito in via Erizzo, a Crocetta. 
Ho avuto tre figlie e un figlio più vecchio … mi sono sposata a 22 anni; mio marito è morto 22 anni fa. Si chiamava Fornasier Giuseppe ed era operaio allo stabilimento anche lui. Era un lavoratore bravo, bon. Tutti abbiamo le nostre cattiverie, ma insomma … a savérse compatir! Cio' si aveva quattro fioi, andar lavorar, sonéa la sirena, non si sapeva a chi darglieli nel momento del cambio. Eh, signor! … si lavorava tutti e due, con quattro figli. 
Prima abitavamo in un'altra casa e si avevano due figli e poi ne sono nati altri due in questa casa qua. Anche questa era una casa del stabiìmento. Poi l'ha comprata mio genero. 
31:28 Vuole che le dica l'ultima? Una volta sono caduta nel Brentellone (el Branteón) e i soldati mi hanno salvato. Ero andata a prendervi un secchio d'acqua perché fontane non ce n'erano, di sera. Prendendo l'acqua ho piantato la testa e sono caduta nel Branteón … i soldati che stavano facendo il bagno poco sopra … [mi hanno salvato. Io mi ero aggrappata con le mani su dei rovi… ]

Nastro 1994/21 - Lato A     Aggiunte e precisazioni, 31 maggio 1994 
31:51 Giuseppe Bellò, quando è tornato a casa ed è rimasto ucciso era assieme a un altro cugino che si chiamava Giovanni. 
La moglie dello zio Angelo si chiamava Giovanna (e noi la si chiamava Nana) Marotto. 
Con noi sono venuti profughi la nonna Regina Marin; suo marito era morto… c'era solo la nonna Regina, quindi, profuga. 
Non ricordo le canzoni che cantavamo da profughi.
34:23 A Teglio, erano gli stessi abitanti del paese che dicevano che l'acqua era "pesante". Era l'acqua che faceva il gozzo … e allora se ne beveva il meno possibile, si aveva paura. 
Si mangiava polenta, si comprava il latte. Polenta brustolada, mattina, sera e roba in insalata: mangiare da profughi … ma là ci volevano bene tutti, dove eravamo. 
Quanto ho camminato in quelle montagne là ad andare a legna con il fascinét sulle spalle. Lungo le sue stradelle si aveva anche un po' di paura, ma con due tre ragazze del posto si andava assieme. Non da sole … si aveva anche il permesso del comune.  
36:43 Gli uomini di Teglio si chiudevano l'ultimo bottone della camicia e ne lasciavano aperti un paio sotto … e usciva il gozzo. Faceva impressione! Era l'acqua pesante … e allora noi si beveva poca acqua, anche perché non si facevano tanti pranzi da dover bere tanto. 
37:49 A Covolo, per lavare la biancheria andavamo sulla Brentella … avevamo il nostro lavèl che portavamo sul posto per inginocchiarsi a lavare. 
Quando sono andata a lavorare, a 12 anni ... non con le scarpe: con le galosséte … altro che adesso. A scuola con le galosce, a lavorare con gli zoccoli.
Ho fatto la terza elementare, a Levada. Avevo anche iniziato la quarta, andando a Covolo, ma è morto mio padre e ho dovuto restare a casa. [...]

Nastro 1994/21 - Lato B 
39:11 Quando sono caduta nel Branteón … ricordo che l'acqua mi ha portato via "sollevata" … mi sono aggrappata ai rovi in un modo tale che poi non riuscivano più a strapparmeli dalle mani. Ero tutta piena di spine, anche la faccia. È venuta mezza Crocetta a vedere se erano riusciti a salvarmi, dopo che si era sparsa la voce che ero caduta nel Branteón. Quando mi hanno tirato su sembravo una morta, ed ero anche «in stato» della bambina, che poi è nata sana; solo che finché non è diventata grandicella (5-6 anni) aveva il terrore di lavarsi e di mettere dentro i piedi nell'acqua.
Poi, piano piano, abbiamo tolto le spine. [...]