mercoledì 28 aprile 2010

Intervista ad Angela Comin Campagnola

Nata nel 1904 a Crocetta del Montello

Nastro 1994/17 - Lato B                          21 maggio 1994

Quando siamo partiti profughi sono venuti ad avvertirci ma noi non volevamo partire.
Sempre abitato a Crocetta, in via Martiri. Un tempo chiamata località Le Stradelle ... noi siamo una famiglia antica di Crocetta.
Siamo andati via con le bestie e un carro; vi abbiamo caricato le galline che sono tutte morte perché non tiravano più fiato dentro il sacco e noi non sapevamo come fare altrimenti. Siamo andati a San Floriano [sulla Postumia, vicino a Castelfranco] da una famiglia che conoscevamo, perché erano venuti qua a stare nel borgo di Crocetta e ci hanno detto di andare casa loro. Là a dormire si dormiva sulla stalla e quando venivano al mattino presto a varnar [governare] le bestie bisognava andare via perché se intrigava e allora bisognava andare fuori. Per mangiare si faceva la polenta e poi ci dicevano portatela sotto il portico e là si mangiava, sempre che ci lasciassero fare la polenta, altrimenti niente polenta. Non ci trattavano tanto bene... Si chiamavano Guadagnin, ed erano venuti a Crocetta a lavorare la terra sotto Pontello. Allora ci siamo trovati un altro posto... 
Noi lavoravamo la terra per conto nostro, avevamo 12 campi di proprietà ed eravamo i più siori del borgo. Eravamo riusciti a comprarci la terra perché noi facevamo anche el mestier dee séste (cestai).
Lavoravamo le ceste in questo borgo, in una casa un po' più in là. Era mio padre l'organizzatore (il padrone) e si chiamava Luigi Comin, detto Feltrin. Eravamo cinque figlie e un maschio che è morto proprio mentre eravamo profughi. È morto di una granata; lui infatti invece di scappare ha voluto restare qua per "tendere alla roba" [vigilare]. Era il fratello più vecchio e si chiamava Piero, classe 1901. Era rimasto a casa, in attesa che ritornasse mio padre a prendere altra roba che sarebbe servita. Non avrebbe potuto restare qua, ma vi era rimasto anche suo cugino Angelo; lui un bel momento ha preso in mano una granata, e quella è esplosa.
Dopo San Floriano ci siamo diretti a Badoere da Seccafien e là vi siamo rimasti per tutta la durata della guerra.
A Badoere ci dicevano va reméngo e mio padre: «Còssa! mi remengo? son remengo che basta mi, stée massa ben mi casa mia, mi no me ocoréa vegner qua da valtri» [Cosa? Io a remèngo? Sono già ramingo che basta, io. Stavo anche troppo bene, io, a casa mia, non avevo certo bisogno di venir qua da voi!] e gli altri: «Spèta che te fàe magnar da un profugo», [Aspetta che ti faccio mangiare da un profugo] dicevano ai loro bambini.
Mio padre si arrabbiava, perché non avevamo bisogno di nessuno, stavamo anche troppo bene noi a casa: lavorar e séste e si aveva anche da portarle a Cornuda sul treno per spedirle ai clienti che le richiedevano...
Poi io e mio padre siamo andati a lavorare a Campigo, vicino Castelfranco, in una filanda ad aggiustare e corbe (grosse ceste). Io aiutavo mio padre e avevo tanta passione a fare il mestiere, e quando venivo fuori dalla scuola se non avevo il lavoro pronto da fare piangevo.
A Campigo alla sera ci davano mezzo uovo e due tre radicchi ... e così e colà... allora mio padre ha detto «no no, non stiamo bene neppure qua» e siamo ritornati a Badoere. A Campigo siamo rimasti due giornate e vi abbiamo lasciato anche del materiale. Perso anche quello!
A Badoere abbiamo iniziato a lavorare, perché là c'era anche un altro che intrecciava i vimini. Così invece di fare solo e séste abbiamo imparato anche a far i sestèi (i cestini).
Io faccio ancora dei cestini, se uno me li chiede, cestini di forma particolare, su misura. Li lavoro "per passione", magari per una pesca di beneficenza, o robe così e i vimini li trovo ancora, sul Piave sempre. Oppure vado a portare le ceste a Bigolino, perché là ce ne sono di più che lavorano ceste (anche se ora meno...); là a Bigolino c'è sempre stato il commercio delle ceste, mentre qua a Crocetta eravamo solo noi.
Noi i vimini li chiamiamo vénghe.
A Badoere i vimini per fare cestini li trovavamo da gente del posto che li portavano anche a Crocetta (e vénghe more) per far le séste. C'erano sanguinelle, s-ciopàdene... e le trovavano drio el Sil (lungo il Sile).
Siamo ritornati a casa appena dopo il 4 novembre, e quando siamo ritornati non c'era anima vivente qua a Crocetta, nessuno ... tutto rotto. Nella nostra casa non si poteva neanche starci, senza tetto e finestre, solo i muri in piedi, forse perché era la casa più grande di tutte qua attorno. Allora siamo andati a dormire nella casa dei cugini che stavano vicino ... e i cugini invece sono ritornati dopo mesi, dopo un anno, perché erano andati profughi ad Altamura. Là erano stati mandati. Noi invece abbiamo fatto per conto nostro e non abbiamo preso neanche il sussidio.
Cioè quando siamo scappati non si è andati via tutti insieme; molti si si sono femati alle Caselle, e quelli sono stati mandati lontano. Mio marito, Campagnola, è andato invece a Como perché vi aveva la sorella.
Noi Comin siamo andati a Badoere perché vi conoscevano quelli che portavano su e vénghe: i Seccafien, che col mussét [asinello] venivano su a Cornuda a portare loro le vénghe more che sul Piave non si trovano, per fare i cesti.
Quando siamo partiti sono venuti quelli del Municipio a dirci di partire. Non ricordo però con precisione.
Mio fratello è rimasto a casa da solo e in un primo tempo avrei dovuto restarci anch'io. Tuttavia, malgrado la presenza del fratello, gli hanno rubato lo stesso i soldi, in casa, perché erano venute anche altre persone a stare con mio fratello. Si erano fatti come amici e poi lo hanno derubato; gli hanno rubato la giacchetta e tutto. Ma poi mio fratello ha individuato chi lo aveva derubato e si è fatto riconsegnare la roba, e anche la giacca.
I cugini sono andati ad Altamura, da Caselle d'Altivole dove erano rimasti per circa tre mesi. Il capofamiglia era Beniamino Comin e la moglie Carolina; erano 8 figli e la nonna Maria.
Ad Altamura se la sono passata abbastanza bene perché hanno preso il sussidio e trovato la casa, gli hanno dato da vestire e il letto. Però sono tornati dopo molto tempo, mentre noi non si vedeva l'ora di tornare. Siamo venuti a casa direttissimi. La casa era in piedi ma mancava di tetto e finestre. La chiesa era colpita ... tutto il paese era distrutto. 
Saremo a neppure due chilometri dal Piave.
Non c'erano né bombe né morti per terra, non era come all'Isola dei Morti.
Dopo la guerra ci ha aiutato a sistemare la casa il Genio, ma non abbiamo preso contributi. Mio padre non andava neppure in cerca, si arrangiava... 

Ha ricominciato a lavorare di nuovo, ha ritrovato il suo giro e ha ripreso contatti con quelli di Badoere... 
Abbiamo avuto un collaboratore ma non dipendenti veri e propri.
Più che "di fino" noi si lavorava le ceste, roba ordinaria. Si facevano anche fiaschi e tutto quello che richiedevano, ma il grosso del nostro lavoro erano le ceste, ceste da vendemmia e per le pannocchie. Poi si facevano anche dei cesti per seminare il frumento, chiamate sestón ... che non erano come quelli delle pannocchie, ma erano "fissi" che non passava neppure l'acqua, e quelli si facevano con i vimini, mentre le ceste le facevamo con le bacchette che venivano su da Badoere.
Noi, i vimini, li lavoravamo solamente; non avevamo tempo di andarli a raccogliere; li compravamo già pronti, e ce li portavano a casa ... anche i raccoglitori prendevano qualcosa.
Con un cesto si comprava molto pane. Con 25 centesimi si compravano tre ciòpe de pan ... con un cesto invece si guadagnavano tre lire, e cesti se ne facevano tanti. 
Venivano i mercanti a comprarli, venivano da Brusaporco, e ce n'era più d'uno. Anche quelli che portavano su i vimini da Badoere (i Seccafien) poi si portavano via i cesti e andavano a fare i mercati. 
Venivano col cavallo e un carretto e ne caricavano anche 400. Preparavano il carro con dei pali che fossero in grado di trattenerli e di farli innalzare. I carri avevano le ruote in ferro ed erano trainati da un solo cavallo, perché i cesti non avevano un gran peso.

Noi non avevamo bisogno di nessuno, a Crocetta. Eravamo orgogliosi e ci siamo trovati trattati da profughi. 
A Badoere non eravamo "incasati" da Seccafien ma da un altro di cui non ricordo il nome, perché da Seccafien c'erano "trappole" [persone, soldati, poco affidabili].
Orinavano giù per il balcone; alla sera c'erano gli inglesi che fumavano e me ne davano anche a me e io avevo imparato anche a fumare e mia madre quando è venuta a saperlo mi tirò via, perché ero da sola in mezzo a questi soldati. I soldati mi volevano tutti bene perché ero profuga ... e allora quando mia mamma lo ha saputo mi ha tirato via e mi ha portato col resto della famiglia che si trovava nell'altra casa. Io da Seccafien ero trattata bene perché sapevano che lavoravo le ceste.
I soldati erano inglesi e scozzesi. 
Mia sorella più giovane Giovanna diceva che sentiva sempre bestemmiare e diceva: «mama ho sentisto bestemar e mi e me vien in boca» [mamma, ho sentito bestemmiare, e a me - le bestemmie - vengono in bocca] e la mamma le diceva: «fa da manco che e te vegne in boca, disi su e orasión» [non farle venire in bocca, dici le orazioni]. Giovanna era preoccupata perché con queste cotolete [gonnelline] a volte agli scozzesi vedevano anche il culo, quando magari saltavano su sul camion, con queste cotolete curte, e senza niente.
Gli inglesi ci passavano anche i fondi del caffè, per seccarli e poi li si poteva usare perché diventavano buoni ancora...

Nastro 1994/21 - Lato B      
Aggiunte e precisazioni, 31 maggio 1994
   
Il borgo di Crocetta in cui abito si chiama Le Stradelle.
Mio marito si chiama Campagnola Giovanni (1905) e ci siamo sposati nel 1944, quando io avevo 40 anni. "Vémo fato amor venti ani" [siamo stati fidanzati per vent'anni], poi lui mi ha lasciato per un po' e quando è tornato ci siamo sposati.
Ho avuto una tósa solamente e poi mi hanno rovinato, i dotori, e non ho potuto più aver altri figli.
La figlia ora è morta, e ha avuto tre figli.
Mia figlia è morta di tumore a 45 anni e si chiamava Malvina. Morta due anni fa,  tumore al seno: le ha mangiato tutte le ossa, fino al femore. È caduta in terra così ... è andata avanti tre anni e mezzo, prima di morire e diceva: «el Signor tre dì e mi tre ani» [il Signore tre giorni - di passione - e io tre anni]. 
E voleva vivere, voleva vivere per suo padre e sua madre. Ha avuto due figlie e un maschio che aveva 11 anni quando è morta sua mamma.

Quando durante la prima guerra è morto mio fratello con una granata, è stato sepolto su una piantada di viti qua all'Indian. Lo hanno seppellito assieme a due soldati.
Mia mamma voleva avere un altro bambino perché voleva el nome, [portare avanti il nome Comin] e allora ne ha preso uno sul brefotrofio e questo bambino è rimasto padrone di tutta la roba e a noi ci è venuto qualcosa di quello che era rimasto...
Il Borgo Indian di Crocetta si trova nei pressi delle fornaci di Crocetta. Sono case che hanno questo soprannome perché vengono fuori con la testa, così, a guardare chi passa, e poi si ritirano ... e allora li chiamano "il borgo Indiano".
Mio fratello fu seppellito in quel posto perché là c'erano dei falegnami che facevano delle casse da morto, e mio papa', poaréto, non aveva coraggio di andare lui a tirar su i resti del figlio. Ha incaricato per l'operazione uno del Municipio che gli ha detto: «Jijo, pense mi, cave mi», e invece passa mesi e passa anni e non lo ha fatto mai. Quando poi si è deciso a farlo mio padre, e aveva la carta in mano per farlo, si è recato sul posto per levarselo e ha scoperto che ormai lo avevano già levato e portato via. Abbiamo poi fatto ricerche, chiesto ... ma non siamo venuti a sapere dove fosse stato sepolto.
La famiglia Guadagnin di S. Floriano lavorava da Pontello, in campagna.
Sul carro quando siamo partiti profughi abbiamo messo anche gli attrezzi da lavoro, perché sono pochi: coltelli, forbice da vide e poco altro...
Quando io mi sono sposata ho aiutato la famiglia, in campagna, ma anche il fratello acquisito, con i cesti. Ma mio fratello non aveva passione per il mestiere, no...
Durante l'ultima guerra abbiamo nascosto in casa nostra anche una famiglia di ebrei scappati dalla Jugoslavia; marito e moglie ... là in casa nostra alle Stradelle. Quando hanno dato l'ordine che chi aveva ebrei in casa doveva andare ad avvertire in municipio ... e poi sono venuta a casa e ho visto che la signora piangeva (lei era proprio ebrea ma poi si era convertita al cattolicesimo e veniva anche a messa) le ho chiesto cosa avesse e lei mi ha risposto: «La tàse siora Angela, go sentio el prete che ha dito cusì e cusì ... e se voi andate ad avvertirli ci ammazzano, noi e anche voi». Io l'ho consolata dicendole che non sarei certo andata al municipio e così abbiamo tirato avanti finché hanno fatto l'armistizio e sono arrivati gli americani. Non ricordo come si chiamassero ... non parlavano troppo [bene] l'italiano.

Seccafien da Badoere si chiamava Adamo; era quello che veniva anche a portare materiale a Crocetta per fare cesti. Era materiale per far e séste che non si trovava sul Piave: c'erano noselère, s-ciopàdene, sanguinèle ... e invece qua sul Piave c'erano altri vimini per far cesti speciali, più raffinati, per far séste bianche con i vimini pelati. Quelle del Sile invece non erano pelate (o venivano pelate col coltello) e prima di adoperarle venivano messe a bagno otto giorni sull'acqua, in una fossa apposita preparata dietro casa. C'era una specie di scambio...
Poi queste ceste venivano vendute a Brusaporco, agli Squizzati (mi sembra Giulio Squizzato) e a qualche altro di cui non ricordo il nome.
Con il treno invece si spedivano e stèle, stecche per fare ceste. Le facevamo noi e andavamo a prenderle a Cornuda. Si prendevano i polloni di castagno, (su pal bòsc de Cornuda), si tagliavano questi pali partendo da terra (dalla base) altrimenti non servivano: erano grossi dai sette ai dieci centimetri, ma anche i più piccoli venivano utilizzati, per far i manici delle ceste, che erano sempre in castagno. Avevamo lo stampo e si andava in forno a scaldarli finché andava bene. Era mia mamma che si intendeva, quando erano pronti perché si usava lo stesso forno del pane. 
Lo stampo (ce l'ha ancora Piero - mio fratello - qua dietro) ... dapprima si scaldava il bastone, e quando era pronto lo si metteva nello stampo. Erano polloni di tre anni circa, per fare il manico ... e quelli più grossi servivano invece per fare stèle, stecche. Ed erano queste che venivano spedite col treno, non ricordo più dove. Ricordo solo che avevamo tanto commercio e avevamo anche un operaio che ci aiutava a tirar le stèle, dalla mattina alla sera. Stavano qua in stalla, d'inverno, mentre io e mio fratello facevamo ceste.
In filanda a Campigo sulle corbe mettevano le gaéte (bozzoli).
A Badoere sono rimasta io, un poco, da Seccafien, ma la famiglia - e anch'io - abbiamo abitato a Levada di Piombino Dese (dopo che mia madre mi ha proibito di rimanere da Seccafien).
Era a Levada che ci dicevano "va remengo", non ricordo più come si chiamasse quella famiglia.

A fare un cesto da vendemmia non posso dire con precisione quanto ci si metteva, non ho mai fatto i calcoli, perché bisogna contare il tempo per tirar le stèle, quello per fare i manici... Mia mamma stava giornate intere, là al forno ... e poi giornate che si perdono ad andare sui boschi a tagliare il materiale ... e poi noi quando c'era tutta la roba pronta si facevano le ceste, dieci dodici al giorno (a persona), mentre el sestón da formento non si riusciva a finirne neppure uno al giorno. Quello lo si lavorava con la paletta, con una paletta di ferro a darghe dentro, a fare in modo cioè che i vimini fossero ben addossati gli uni agli altri, in modo che il grano non uscisse fuori. Avevamo una specie di spatola.
Gli attrezzi li ha mio fratello Piero che però non si chiama Comin. «Védeo, no sén stati boni a meterghe el nome!» perché [...] sono andata tante volte io dall'avvocato, ma sempre la teneva lunga ... e così lui continua a chiamarsi Mennilli. È stato trovato al brefotrofio di Treviso. È del 1922 e aveva 20 mesi. Voleva molto bene a mia mamma; mio padre invece è morto giovane, anche lui da un tumore, uno dei primi tumori che venivano fuori. Lo ha preso dietro allo stomaco e ci ha messo un anno a morire. Aveva 68 anni ed era del 1870.
El séstón di frumento valeva molto più di quello da vendemmia. Quando si vedeva che c'era un buchetto più largo gli si metteva una stecca. In tutto ci volevano 24 stecche [?], e c'era un commercio anche di questi séstóni. C'erano di quelli che li ordinavano apposta; soprattutto erano le famiglie della zona.
Ero io a farli questi séstóni; mio padre non si prendeva l'impegno a farli, ci voleva troppa pazienza. Mio padre faceva ceste, piuttosto ... e neppure i mercanti li volevano, perché non "ci stavano dentro", non ci potevano guadagnare molto, e i contadini, per seminare, usavano  piuttosto una mastella. Comunque c'era sempre quello che non ci badava e voleva el séstón, perché era bello. Ne facevo 10-12 all'anno. La forma era come quelli da vendemmia, però era bianco, con i vimini del Piave.
Per i fiaschi, anche per quelli utilizzavo i vimini bianchi del Piave... 
Mia madre si chiamava Rosa Gallina, ed era nata nel 1870 a Cornuda.
All'inizio, da Seccafien ero da sola...

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