sabato 24 aprile 2010

Intervista a Gilda Chiarcossi

Nata il 21 dicembre 1910 a Codroipo.    

Nastro 1998/2 - Lato B                  16 febbraio 1998

Noi siamo stati in tempo di guerra a Firenze e sono anche andata a scuola a Firenze in via Romito, io e Gino Cordovado. Lui era dell'11, ma avevamo solo dei mesi di differenza, non tanto; ora è morto.
Siamo partiti da qua [vicino alla ferrovia di Codroipo] e su per la ferrovia con tutta la nostra famiglia, perché eravamo in tanti. Io ero l'ultima di tutta la squadra, e questo Cordovado, con sua mamma, insieme con noi.
Siamo andati a piedi fin oltre il ponte del Tagliamento, della ferrovia, poi ci hanno caricati su un carro bestiame e ci hanno portati a Casarsa.
C'era tanta gente, non qua del posto; noi eravamo ancora in pochi qua di Codroipo a scappare, saranno state poche famiglie.
La nostra è stata la prima casa ad essere costruita in questo viale (Viale Zara), perché mio padre faceva servizio in ferrovia, in un casello qua vicino: mio padre di notte e mia mamma di giorno, di fronte alle case di Daniele Moro, e a volte prendevano la multa perché non erano sul posto giusto...
Io ero bambina e assieme a quel Cordovado là, che era quasi sempre qua in casa, eravamo amici. Sua mamma (Azzano Luigia) aveva solo questo figlio perché aveva il marito in Canadà, ed è partita con noi lungo la ferrovia, a piedi fino oltre il ponte del Tagliamento. Mia mamma si chiamava Pittana Luigia in Chiarcossi Arcangelo.
Io sono l'ultima di dieci figli, e di questi figli uno, Guido, classe 1891, all'epoca era a Vancouver, in Canada, in una fabbrica e dopo la guerra siamo state anche noi a trovarlo.

Nastro 1998/3 - Lato A

... mio fratello era andato in Canada prima della guerra...
D. Chi vi ha detto di partire?
R. Eh, chi si ricorda, adesso. Eravamo bambini di neanche dieci anni, io e Cordovado, che era quasi sempre qua...
Degli altri fratelli, uno era in Canada, uno era sposato a Udine (a Colugna).
Quando noi siamo partiti c'era già gente in movimento, c'era confusione. Siamo partiti di qua che era giorno e poi camminavamo sulle "lame", sui traversi (sulle traversine) della ferrovia, in mezzo alle rotaie. 
Nella ferrovia c'era una fila di profughi, tanti, anche da Udine venivano. 
Si andava tutti a piedi.
Mia mamma ci ha accompagnati fino sul ponte del Tagliamento e poi io ero nella mano con lei perché ero l'ultima della fila e lei ha preso mio papà e gli ha detto: «Senti, tu prendi la bambina - io ero bambina ma mi ricordo sempre le parole - prendi Gilda, e tienila per mano, non mollarla a nessuno».
[...] Mio padre non era militare era nel casello, faceva servizio, e poi è venuto a Firenze, e poi è venuto di nuovo qua in Friuli per fare servizio.
A Firenze, a scuola, io e Cordovado... Due mie sorelle invece andavano a lavorare verso Rifredi, perché c'è via Romito e poi c'è Rifredi. Lavoravano in uno stabilimento che si chiamava Torrigiani, era uno stabilimento che lavoravano roba da mangiare, anche verdure. 


* * *
Conserve Alimentari LTorrigiani Società Anonima - Sesto Fiorentino - Firenze. Molto usato per il rancio dell'esercito italiano, il condimento della Torrigiani veniva ingurgitato dai soldati con crescente disgusto.
Ecco un paio di esempi tratti da memorie di combattenti italiani nella Grande Guerra:


Autunno 1915, Bologna, Caserma Cialdini
    «Noi allievi ufficiali dovevamo, come tutti gli altri fanti, metterci in fila con la gavetta per ritirare il rancio. (...) La sera il menù era costituito dalla pasta asciutta condita con il "Torrigiani", un sugo preparato non si sa come, né con quali ingredienti, e contenuto in grossi barattoli di latta: tutto l'esercito in armi, negli anni 1915-1918, dovette purtroppo adattarsi a quell'orribile condimento che perseguitò i combattenti su tutti i fronti».
      Giulio Bazini, Da Venezia ... a Venezia, Club degli Autori, Firenze, 1970, p. 51.


Settembre 1917,  Zona medio Isonzo dopo la battaglia della Bainsizza. 
    «Presto tornò la calma su tutto il fronte. Quello che però cominciò a farsi sentire sempre più fu il malcontento tra noi soldati. Il trattamento che ci veniva fatto nel vitto, si può dire che era pessimo (...) eravamo specialmente stomacati di quelle famigerate lattine di "Torrigiani" che ci propinavano con la pasta asciutta e più spesso con il riso stracotto che ci toccava ingoiare in mancanza di altro».
     Artigliere Francesco Pilot, classe 1898, Venezia, in Alberto Genova, Noi combattenti a Caporetto e al Piave, Canova, Treviso, 1968, p. 104.
* * *

Sulla ferrovia assieme a noi passavano anche militari, perché dopo hanno fatto saltare il ponte, poco dopo che eravamo passate noi; siamo passati quasi degli ultimi, noi...
Mia mamma è tornata indietro dopo avermi affidata a mio padre. Gli aveva detto: «Prendi la bambina e non mollarla a nessuno».
Mia mamma è tornata indietro da sola sempre lungo la ferrovia... ma ormai non passavano più treni e il servizio era abolito...
Mia mamma quando è tornata indietro ha trovato la casa piena di militari e ha lottato per mandarli fuori, perché ha detto, mi ricordo le parole che ancora ci raccontava: «Voi dovete andar fuori perché qua deve venire la mia famiglia, qua», e insomma, piano piano ha sgomberato i soldati. Così di giorno stava a casa sua e di notte andava da un'altra donna, Lucia Costantini, che aveva un bambina piccola come me, di nome Marianna che avrà avuto forse qualche mese meno di me. Andava là per passare la notte assieme, perché una donna sola qua, non stava bene.
Poi mio padre quando ha potuto è ritornato a Codroipo, e mio fratello anche lui che faceva servizio in ferrovia.
Nell'anno in cui noi eravamo a Firenze, la ferrovia non ha ripreso subito, ci ha voluto tempo a riprendere.
Qua c'era fame e miseria e meno male che i friulani mangiavano polenta... e noi avevamo un campo di terra...
I tedeschi portarono via tutte le bestie, caricavano (infilzavano) le galline sulla baionetta e poi partivano a piedi.

Il papà è venuto con noi a Firenze. Io andavo a scuola e tanti ci maledivano, perché, sa, si andava in coda a prendere un po' di pane e c'era una mia sorella, di nome Roma (e un altro fratello si chiamava Vittorio), che con questa mamma di Cordovado andavano in giro per Firenze a vedere se trovavano un po' di pane per mangiare.
Eravamo in un gran palazzo. La stazione era là e noi eravamo ... sulla ferrovia, non molto lontano e mi ricordo che si andava a giocare vicino alla stazione, con i bambini, si correva a destra e sinistra, fra di noi, bambini profughi.
Eravamo in un gran palazzo tra due ponti, se conosce Firenze, e passavano le ferrovie; era un palazzo dei ferrovieri. Siccome noi eravamo una famiglia di ferrovieri, allora ci hanno messo là, in via Romito tra i due ponti, che poi, se lei conosce, c'è la fortezza. Da questa parte, passando il ponte, si vede la fortezza, che dopo si va in centro. 
In questo palazzo eravamo tutti profughi, la maggior parte friulani, dalla Carnia, Tolmezzo, Chiusaforte, insomma tanti da questa parte.
Da Torrigiani lavoravano le verdure, roba da mangiare per i militari. Era difficile la vita anche là.
Si giocava fra profughi, perché là il palazzo, mi sembra ancora di vederlo, era grande, ma tutti profughi...
Siamo ritornati a casa dopo 17 mesi.
[Io e mia sorella] ci ricordiamo queste cose come un sogno.
Non tutta la nostra famiglia è partita, perché il primo era in Canada, il secondo (Donato) era a Colugna e faceva il battirame, una volta batter il rame andava di moda...
Quando siamo ritornati qua la casa era in piedi, era tutta in sassi, era la prima casa della via, la prima fatta qua. La casa l'aveva fatta mio papà e la casa era sua, lui era casellante.
A Firenze andavo a scuola a Rifredi, mentre mia sorella Maria andava a lavorare da Torrigiani a Sesto Fiorentino.
D. Cosa vi siete portati via da casa, quando siete partite?
R. Niente, giusto, come si dice, un ... vestito per cambiarsi, ma non si poteva. Cosa si può portare via a piedi ... una borsa, un po' di pane, ma pane non ce n'era neanche quella volta; polenta, si mangiava.
Mia mamma non ha voluto partire, cioè è venuta fino sul ponte del Tagliamento e poi ha detto a mio papà: «Prendi la bambina per mano, non mollarla a nessuno, che io torno a casa». Le parole di mia mamma, le ricordo benissimo, e mio papà le disse: «Tu vuoi tornare a casa? Sei matta a tornare a casa!» e lei «Sì, io voglio tornare a casa. Chi è che mi guarda la mia casa!», gli disse. È venuta a casa e ha trovato tutto pieno di soldati e piano piano li ha fatti andar fuori...
Lavoravano in un piccolo casello, lo chiamavano la "garitta". 
A Firenze mio padre ha continuato a lavorare in ferrovia, cantoniere. 
Con il carro merci da Casarsa ci hanno portati fino a Treviso, e poi da Treviso coi vagoni neri che caricano anche oggi, ci hanno caricati là in questo vagone, tutta la nostra famiglia e ci hanno portati fino a Firenze.

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