lunedì 15 maggio 2017

La costruzione di una diga in Francia

Il racconto dell'emigrante Giovanni Brescancin nato a Ponte della Priula (Treviso) nel 1906.


Questo brano fa parte di una più ampia intervista effettuata da Camillo Pavan nel corso delle ricerche sull'ultimo anno della prima guerra mondiale, dopo Caporetto.

Nastro 1994/36 - Lato B                                  26 settembre 1994

Nel 1929 quando a Ponte della Priula è passato il ciclone, e ci ha buttato giù la casa, tutti quanti gli abitanti qua attorno sono venuti ad aiutarci a rifarla su. Però il materiale abbiamo dovuto pagarlo e per prendere i soldi per pagare 'sti debiti sono andato operaio in Francia.
Ero a fare una diga sul nord della Francia [in realtà nel Massiccio Centrale]. Il padrone era un certo Ferraro di Biella, a cui ho detto chiaramente [...] che avevo bisogno di questi soldi per pagare i debiti. Eravamo in seicento operai, la maggior parte erano slavi. Ma c'erano anche alcuni paesani che mi hanno detto che ero fascista. 
Un giorno ero là che caricavo sassi con el forcón. Arriva uno con el sapón [zappa] a dirmi «questa sera ti facciamo la pelle». [...] Nella baracca dormitorio c'erano sei letti da una parte e sei letti dall'altra rispetto alla porta e il mio letto era l'ultimo... Allora sono andato a dormire tre notti su un ciliegio.
Il padrone mi ha chiesto cosa avevo. Io mi son messo a piangere, raccontandogli l'accaduto. Lui ha radunato tutti gli operai, dicendogli guai se mi avessero toccato. I paesani avevano detto che ero fascista per invidia, per cattiveria. 
[...] In realtà era mio fratello D. che qua in paese si vantava di essere fascista della prima ora, e così in Francia se la prendevano con me.
La diga si trovava sul dipartimento di Aveyron e la città più vicina era Rodès [Rodez] dove facevano macchine del treno. Noi costruivamo in mezzo a due montagne questa diga. C'erano dei frantoi che spaccavano le pietre e a venti metri di distanza si sentiva la terra vibrare. Io caricavo i sassi che venivano portati nei frantoi. I sassi li prendevamo da una montagna magra che non aveva piante, e c'era una pietra dura e nera. Caricavamo la pietra sui vagoni e veniva portata nei frantoi.
L'impresario ci diceva che quando si facevano più di settecento metri al giorno di bitume andava bene. Quando invece le "bitumiere" non li facevano allora lui diventava cattivo. Era piccolo, era di Biella, aveva i mostàci lunghi. In Francia avevano i pacchetti di tabacco da 70 grammi e quando l'impresario era arrabbiato perché non avevamo fatto i quantitativi previsti di bitume si metteva a mangiare tabacco. E io dovevo andare a casa a prendergli il tabacco; a casa, di corsa. Il tabacco lo morsicava e poi lo sputava.
L'impresario mi chiamava Nani.
C'era una bilancia, una benna, che portava il materiale di qua e di là, con una corda molto grossa di acciaio. Serviva per il trasporto e il padrone la utilizzava anche lui, ed era tutto contento - quando arrivava - che io fossi là presente e lo prendessi in braccio. Quando alla sera aveva finito il lavoro, verso le sei sette, usciva dagli uffici e mi diceva: «Nani bisogna andare fino a Sainte Geneviève (il paese più vicino) a firmare queste carte».
Da dove eravamo noi al paese erano 11 km, per le mulattiere. Nel paese c'era il sindaco che al mattino faceva scuola e al pomeriggio firmava le carte. Quando arrivavo io lo trovavo all'osteria di fronte a casa sua che giocava a carte. Entravo con il fiato lungo e lui mi diceva:
«Kes ke vu vulè Nanì?»
«S'il vu plé, vulè vu me firmer le papier...»  Tirava fuori la penna e firmava le carte.
Tutti mi chiamavano Nanì, e in francese Nanì sarebbero i fagioli.
Il padrone, l'impresario, si chiamava Ariosto Ferraro e aveva una figlia di 14 anni e un'altra di dieci.
Il lavoro era progettato per una spesa di 94 milioni.
Una sera hanno fatto una cena e il padrone mi ha chiamato con sé. A tavola ero fra Ferraro e un ingegnere olandese rappresentante di chi aveva messo i soldi per costruire la diga. A un certo punto l'ingegnere olandese mi ha chiesto da dove provenivo e io gli ho detto che ero italiano da Treviso, dal Piave. Lui mi ha chiesto cosa il governo italiano ci avesse dato in seguito al ciclone, e io gli ho risposto "nulla". Come nulla? si è meravigliato ... che noi olandesi, il nostro stato, ha dato all'Italia un finanziamento del venticinque per cento dei danni fatti dal ciclone?
Io ero sposato, all'epoca del ciclone e avevo un figlio. Mi hanno dato tre scatolette di carne dei soldati, tre pagnotte dei soldati e una coperta sempre dei soldati, che se ti coprivi la schiena non ti coprivi più i piedi, e viceversa. Il ciclone è venuto nell'autunno, fine estate, del 1929.
Il fiume su cui veniva costruita la diga si chiamava "la Truyère". Era un canale che avrà avuto un due metri di acqua, ma di quella che spingeva, che veniva giù dalle montagne.
Questa diga [Barrage de Sarrans] faceva 160 metri di altezza e 180 di piede. Era sopra l'acqua di 20 metri e il lago rinculava per quaranta chilometri...
Io al padrone, intanto che lui mangiava, gli pulivo le scarpe e a volte parlavo assieme. Ero un po' il suo attendente.
Una volta gli ho chiesto cosa potrebbe essere in grado di buttare giù la diga. Mi ha risposto che si dovrebbero mettere insieme tante bombole di gas e poi farle scoppiare tutte assieme. Con il colpo dello scoppio l'acqua rinculerebbe e tornando indietro rovescerebbe la diga.
Sono rimasto là fin quando la diga era quasi finita.
Dove l'acqua entrava per andare sulle turbine aveva 12 metri di larghezza e dove invece entrava per fare corrente sulla turbina, aveva 35 cm. S'immagini, con il salto che doveva compiere l'acqua, quanto veloce scendeva: veniva fuori spuma.
C'erano i germanici che erano venuti "a mettere su" le tre turbine. Dicevano che una turbina da sola poteva far andare la luce di tutta Parigi. Questi germanici, fosse estate o fosse inverno erano sempre vestiti di cuoio. Uomini grandi, grossi, pesanti. Io ero là e li guardavo, ma non fiatavo mai; loro mi guardavano sempre con la schiena...
Sono rimasto là finché ho pagato i debiti.
Per arrivare a casa mia in Italia ci volevano tre giorni e tre notti di treno. Il padrone si prendeva uno scompartimento tutto per lui e la sua famiglia (due figlie e un figlio piccolo di 2-3 anni). Io ero nel vagone insieme a loro e dovevo guardare la valigia con i documenti, ecc... In questa maniera sono ritornato tre volte assieme. Poi ci lasciavamo a Torino.
Là in Francia hanno dei bei pani di due tre kg di peso. Una volta ricordo che sono andato a preparare la loro casa, perché il padrone doveva ritornare, e c'era questo bel filone di pane e io me lo sono mangiato.
Qualche volta andavo a messa a Saint Geneviève e ci volevano due ore ad andare e due ore a tornare.
Una volta sono state appoggiate le reti sulla bocca dove avrebbe dovuto entrare l'acqua per far girare le turbine. Erano delle piastre di ferro tutte fatte a rete. Hanno appoggiato queste piastre su dei pali e dentro sono andati degli operai a spalmare del catrame, perché il catrame si sarebbe attaccato alle piastre di ferro e l'acqua... [...] Sono scivolati gli appoggi in cui erano sistemate queste piastre e sei operai sono caduti dentro le turbine: i sei operai sono morti, fatti a pezzetti.
Ero in galleria a lavorare con un portoghese che mi dice che lui aveva lavorato a sufficienza. Aveva preso soldi quanto bastava e quindi lui andava a casa. Camminando lungo il bordo della galleria - la testa è sempre più avanti del corpo - da sopra è caduto un sasso grosso così. Lo ha preso in testa e lo ha ucciso sul colpo. 
Ne ho visti diversi morire, e allora ho chiesto a Ferraro: 
«Signor Ferraro, mi sembra che qui tanti ci lasciano la pelle... » 
«Eh, Nani» mi ha risposto «prima di iniziare il lavoro noi avevamo preventivato quanti operai potevano morire... » 
Avevano messo in conto un tot numero di operai che sarebbero morti.
Dove c'erano le betoniere che facevano il cemento ho visto un sasso venir giù e levare un tacco della scarpa di un operaio. 
Ho visto quelli che lavoravano sotto gli scivoli da cui scendeva il cemento. Avevano tutti l'elmetto in testa; a un operaio è caduto un sasso in testa e poi non erano più capaci di levargli l'elmetto: il ferro dell'elmetto si era conficcato nel cranio. Non so che fine abbia fatto, l'hanno trasportato in ospedale.
C'era uno che spalmava catrame sul muro della diga in modo che l'acqua non intaccasse il muro. Era sospeso nel vuoto, e due compagni lo spostavano con un mulinello. Non si sa come ... è saltato via l'ingranaggio che teneva il mulinello o che altro... e ha fatto un salto di circa trenta metri. L'ho visto cadere su un mucchio di sabbia come una granata. Si è visto la sabbia schizzare in alto. Anche quello l'hanno preso e l'hanno portato a Rodès... 
Insomma, quando uno si faceva male lo portavano in ospedale e non se ne sapeva più niente.
Eravamo seicento operai. C'erano soprattutto slavi della Jugoslavia, poi c'erano marocchini, spagnoli, portoghesi. Si lavorava in tre turni da duecento persone alla volta. Giorno e notte, con i riflettori ... e io sono rimasto quattro anni in quel posto! [...]
Un anno la moglie di Ferraro, nelle ferie di agosto, mi ha mandato a more di rovo per fare marmellata e mi ha detto: «Noi, Nani, domani andiamo via, andiamo a passarcela a Rodès con la famiglia, e tu andrai a more di rovo per fare marmellata.» Io sono sì andato a more di rovo, e avevo una secchia, una pignatella, ma quando erano le dieci della mattina mi è venuto un sonno!
Alla sera precedente, alle 11, mi avevano preparato ancora sei paia di scarpe da pulire. Avevo un sonno di quelli che non riuscivo a stare con gli occhi aperti. E quando avevo trovato, a dir tanto, un chilo di more, che avevo messo sulla secchia, mi sono buttato giù sotto un albero e mi sono addormentato.
Mi sono svegliato alla sera, all'imbrunire.
Quando la signora è tornata a casa le ho mostrato le more. Lei mi ha chiesto: 
«Dove sono le more?»
«Signora ho trovato quelle là solo. Ho preso sonno sotto un albero ieri mattina e mi sono svegliato che era ormai quasi buio» 
«E io Nani lo mando via». 
Una parola che pesa ... io le ho risposto: 
«Lei signora faccia quello che vuole» ... Doverle dirle così, sapendo che avevo una famiglia a casa. Era dispiacere, era fame ... ma non ne potevo più dal sonno. Comunque non mi ha mandato via.
E adesso le racconto l'ultima.
Fai conto che da dove abitava Ferraro fino alla diga fossero stati tre chilometri. C'era una mulattiera, e la moglie preparava il mangiare per il marito in una cassettina.
Quando erano le 10, le 11 portavo questa cassetta al padrone e poi la riportavo indietro, ma spesso il padrone non mangiava tutto e mi diceva: «Nani, qualche volta fare a meno di mangiare è come prendere una purga». Così invece di mangiare tutto mangiava solo una parte.
Io, a vedere questo mangiare che lui lasciava là e sentire le prime volte che la moglie si lagnava perché lui non aveva mangiato ... allora ho capito che era meglio che mangiassi io, perché avevo una fame da orbo. Mi fermavo per la strada e mangiavo. E lei non si è più lamentata!
Questo Ariosto Ferraro era un bravo operaio, che si era fatto da sé.

*** 

Per saperne di più su storia, ambiente, proposte turistiche del territorio in cui è sorta la grande diga:
- Vai alla traduzione francese (curata da Osvaldo Buosi)

2 commenti:

  1. merci beaucoup de votre commentaire sur le blog de laussac
    merci de ce temoignage
    Daniel

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  2. Il grazie va soprattutto a Giovanni Brescancin

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